Quella del vino italiano negli Stati Uniti è una frenata che arriva da lontano, e che va saputa leggere, perché attraversa diversi piani. A dipanare una matassa che si fa sempre più ingarbugliata, a Winenews.it, è Thomas Hyland, storica firma enoica di Forbes, il magazine economico più letto ed influente in Usa e non solo, che da oltre vent’anni scrive di vino italiano. “Le difficoltà - spiega Hyland, incontrato nella tappa di Chicago dello U.S. Tor del Simply Italian Great Wines by Iem - vanno lette su più piani: facciamo l’esempio del Nebbiolo, da una parte ci sono i grandi Barolo ed i Barbaresco, che, sul mercato dei premium wine, sono alternative spesso vantaggiose ai top di Bordeaux e Borgogna, dall’altra i Langhe Nebbiolo che, rispetto ai concorrenti di fascia media costano molto di più”.
Ci sono poi denominazioni confinate in una categoria ben precisa, dalla quale fanno difficoltà ad uscire. “Prendiamo il Prosecco - riprende la firma di Forbes - che va ancora forte, ma a patto che resti in un range di prezzo basso, 10-12 dollari allo scaffale. Questo vuol dire che il Conegliano Valdobbiadene, che spunta prezzi decisamente maggiori, trova delle difficoltà. E questo vale anche in termini di gusto: la gente, dal Prosecco si aspetta poca complessità scarse acidità e molta piacevolezza, ossia tutto ciò che non troverà in uno Champagne, ad un prezzo appetibile”. E questo apre un altro fronte, ossia quello della qualità e del prezzo nella singola denominazione, “ad esempio, nel Chianti Classico, ma ad un livello leggermente più alto, e il discorso vale anche per il Brunello di Montalcino: ci sono tanti produttori che propongono vini sì ben fatti, a prezzi concorrenziali, ma ben lontani dalle vette qualitative che certi territori meritano”.
In un certo senso, così, quella del prezzo medio, che è forse la leva principale per il vino italiano sui mercati esteri, è un punto di forza e, al contempo, di debolezza, “perché ci sono Regioni come la Puglia che vengono considerate solo per produzioni come il Negramaro o il Primitivo da 15 dollari al massimo allo scaffale, il consumatore medio non ha alcun interesse, né alcuna conoscenza, che lo porti a spendere 35 dollari per un vino pugliese di alta qualità. Ci sono troppe denominazioni, e questo è davvero un problema per il vino italiano, perché alla fine la gente si rifugia in quelle poche che conosce”. E per le altre? Le altre devono continuare ad investire in comunicazione, aggiustando il tiro e facendo qualcosa di più, nella consapevolezza che “in città come New York, Los Angeles e Chicago c’è spazio per crescere, ma in tante altre no”.
Ci sono poi vini che giocano una partita a sé, ossia i grandi vini da investimento, quotati sul Liv-ex e campioni delle aste. “È un’ottima cosa, per il vino italiano, che il Sassicaia, così come il Masseto ed i vini di Gaja, stia raccogliendo un tale successo, dimostra che l’Italia può produrre grandissimi vini. Però - frena Hyland - prendiamo proprio il caso di Gaja, è prima di tutto il vino di Gaja, solo in secondo luogo è un Barbaresco, e questo vale anche per il Sassicaia ed il Masseto, sono vini unici a cui si avvicinano investitori e collezionisti che li considerano come alternative a Bordeaux e Borgogna, più che come espressioni della viticoltura italiana. Sono brand talmente potenti da fare ombra sia alle denominazioni che rappresentano, sia allo stesso brand Italia. È sicuramente un fenomeno positivo, ma non rappresentativo del vino italiano, specie perché, quando si parla di Masseto e Sassicaia, si parla di vini prodotti con varietà internazionali”.
Un’altra criticità, infine, riguarda il legame tra il vino ed il territorio, perché succede che una grande denominazione faccia fatica ad emergere, a causa essenzialmente della scarsa popolarità della Regione da cui proviene. “Penso al Verdicchio, un vino straordinario, che amo molto - rivela il wine writer - un bianco dalla capacità d’invecchiamento unica, eppure nelle carte dei vini dei ristoranti di New York e Chicago se ne trovate due è già un miracolo. E questo perché la gente conosce la Toscana, il Piemonte, la Sicilia, e poco più, dell’Italia, non sa nulla delle Marche o dell’Abruzzo, sa solo che è dove si produce il Montepulciano d’Abruzzo, il vino economico servito in aereo in economy”. Di nuovo, l’Italia appare troppo complessa per essere compresa. Di buono, però, c’è che “il consumatore americano non è così leale, ed è pronto a passare da un vino all’altro, in base a ciò che il mercato offre. E questo vale sia in termini positivi che negativi: se il Chianti Classico, ad esempio, che oggi costa 20-22 dollari a bottiglia, paga la pressione del Malbec, che arriva allo scaffale a 13-15 dollari, tante altre tipologie posso trovare il loro spazio”.
Insomma, al centro di tutto, e non potrebbe essere altrimenti, c’è il consumatore, che ha del vino una percezione ben diversa da quella dell’esperto, “limitando il proprio universo enoico a California e Francia, e quindi a quella manciata di varietà internazionali che li contraddistinguono: Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Chardonnay e Sauvignon. L’Italia, in questo senso, resta tagliata fuori, perché la gente comune sa ben poco dei vitigni autoctoni italiani, persino dei più noti, come Nebbiolo e Sangiovese. C’è ancora tanto lavoro da fare in questo senso - conclude Hyland - ci sono storie da raccontare ed identità da svelare. Non mi aspetto di trovare gli scaffali dei supermercati colmi di vini calabresi, ma la promozione e la comunicazione fatta negli anni scorsi dalla Toscana, ad esempio, facendo sistema, la possono fare anche i produttori di Campania e Sicilia, mettendo da parte, ovviamente, le divergenze tra produttori e denominazioni, e semplificando il messaggio di cui farsi portavoce”.