Eleganza, eleganza, eleganza: è il concetto chiave che guida la mano ed il pensiero enoico di Carlo Ferrini, uno dei più grandi enologi italiani, “Winemaker of the Year” per “Wine Enthusiast nel 2008”, firma di tanti grandi vini italiani, tra cui il Brunello di Montalcino Casanova di Neri 2001 al n. 1 della “Top 100 di WineSpectator”, consulente di tante realtà di primo piano dal Trentino alla Sicilia, e da qualche tempo produttore di vino “in proprio”, in due territori lontani, ma molto simili sotto tanti aspetti, come Montalcino, uno dei più importanti d’Italia e del mondo, con Podere Giodo (nome che è omaggio ai genitori, Giovanna e Donatello, 6 ettari di vigna che guardano l’Amiata, con gli 8 cloni selezionati da Ferrini, per una produzione di 10.000 bottiglie tra Brunello di Montalcino e Igt Toscana), e Alberelli di Giodo, sull’Etna, stella sempre più luminosa del vino di Sicilia (da cui nascono 6-7.000 bottiglie da 1,5 ettari di vigna, vinificate nella cantina di Pietradolce, ndr). Due progetti nati “perchè girando tra le vigne prima o poi ti innamori e hai voglia di fermarti per fare qualcosa di tuo. E per me è un modo anche per omaggiare i miei genitori, nati poverissimi, perchè possedere vigna in questi territori è un motivo di grande orgoglio, ma anche un lavoro in prospettiva insieme a mia figlia Bianca, 28 anni, che dopo tante esperienze nel mondo dal prossimo anno entrerà in azienda. Con un obiettivo chiaro: non voglio fare il vino più buono del mondo, ma un vino che dia grande godimento a chi lo beve”.
E proprio dal parallelismo tra questi due territori parte il viaggio di Winenews.it nel “Ferrini-pensiero”: “innanzitutto entrambi sono territori basati sul monovitigno, il Sangiovese a Montalcino ed il Nerello Mascalese sull’Etna (che dà il meglio sul versante Nord, che è fondamentale, sottolinea Ferrini), che è una cosa che mi affascina moltissimo. Ho fatto blend su blend nella mia carriera, ma penso che l’eleganza e la sensualità che si possono raggiungere con alcuni vitigni in purezza, e ci metto anche il Nebbiolo, siano qualcosa di unico. E poi entrambi i territori - continua Ferrini - hanno una storia comune: dapprima poche famiglie e cantine (come Biondi Santi o Cinelli Colombini, per citarne alcune a Montalcino, o Franchetti, Benanti e Cambria, sull’Etna, per fare degli esempi, ndr) che hanno dato il via, poi l’arrivo di altri produttori dai territori vicini (come Antinori o Frescobaldi a Montalcino, o le grandi famiglie del vino siciliano sull’Etna, dai Planeta ai Tasca d’Almerita, dai Rallo ai Cusumano, a Firriato, solo per citare alcuni nomi), da altre Regioni e, soprattutto nel caso di Montalcino, anche dall’estero (con la famiglia italo americana Mariani e Castello Banfi su tutti), che hanno contribuito in maniera fondamentale alla crescita enologica e anche commerciale di questi due territori. E anche sull’Etna, per avere ancora più respiro internazionale, sarebbe auspicabile che arrivassero anche grandi famiglie italiane - come fatto di recente da Gaja - o straniere”.
Territori che hanno dinamiche e tempistiche simili, dunque, con qualche anno di vantaggio da parte di Montalcino sull’Etna, e che in comune hanno anche un costante dibattito su una zonazione, di fatto, mai compiuta. E sulla quale Ferrini, da buon fiorentino, parla senza peli sulla lingua. “In generale, quando si parla di zonazione, c’è sempre la paura che si vada a classificare, a dire che questa zona è migliore di quella. Io credo che piuttosto si deve ragionare in ottica di “caratterizzazione”, e di dire che una certa zona di un territorio dà vini con caratteristiche specifiche e diverse rispetto ad un’altra. Che è una grande opportunità per tutti, perchè non è detto, poi, che la zona che può essere considerata in qualche modo “la migliore”, sia poi quella più apprezzata dal mercato. Perchè c’è chi magari ha voglia di vini che vanno degustati, di stare davanti alla bottiglia anche due ore per coglierne le evoluzioni e le sfumature, e chi ha voglia di godersi un grande vino in maniera più disinvolta. Quindi sarebbe un bene poter identificare le zone seguendo parametrici scientifici, dall’esposizione all’altitudine per esempio, per poter dire che da una certa sottozona vengono vini magari più profumati ed eleganti, e da un’altra più austeri e strutturati. Io credo sarebbe un’opportunità per tutti. Anzi, visto che la viticoltura italiana di qualità, in fondo, è giovane, e figlia degli anni 90 del secolo scorso, aggiungo che approfittando di questa gioventù avremmo potuto e dovuto guardare con più apertura e attenzione ad esperienze di successo in questo senso, e non penso solo a Bordeaux o alla Borgogna, ma anche a Barolo. Certo è che le cose vanno impostate bene: parlare di zonazioni che seguono i confini comunali, invece che scientifici, cosa di cui si parla nel caso dell’Etna (ma anche del Chianti Classico, sottolinea Ferrini) secondo me è un errore, non ha senso, e forse fa più confusione che altro. Sull’Etna poi, spero ci sia una inversione di rotta: in 5 anni si è passati da 500 a 1.000 ettari, e magari si consente di piantare vigneti giovani dove si deve spianare il terreno, ma si lasciano fuori vigne centenarie, che sono un patrimonio inestimabile, perchè sono di poco al di fuori della Doc, o magari ad un altitudine più alta di quanto il disciplinare preveda. Per me non ha senso, mentre lo avrebbe quello di mettere un freno ai nuovi vigneti, e trovare il mondo di includere queste vigne vecchissime che sono un patrimonio. Ed è anche per questo che per esempio, il vino che faccio sull’Etna dall’ettaro e mezzo diviso in otto appezzamenti diversi, anche a 900-1.000 metri di altitudine, con vigne centenarie, prefillossera, io lo imbottiglio tutto come Doc Sicilia, anche se alcuni vigneti sono nella Doc Etna e altri no, perchè voglio fare il vino che piace a me, e vendere la qualità del vino. E soprattutto voglio fare un’etichetta per ogni azienda. Certo è che sull’Etna ti innamori, e quando vedi vigne di 80-100 anni, che magari producono 2 grappoli per pianta, la curiosità diventa irresistibile”.
In ogni caso, quello dell’Etna è un percorso “in fieri”, come lo è stato quello del Brunello di Montalcino, “che secondo me sta raggiungendo quasi la perfezione. Dal mio punto di vista il Consorzio è stato bravissimo nel difendere sempre il monovitigno, e dopo anni in cui si puntava su vini robusti, oggi la viticoltura si è evoluta, si sta raggiungendo il giusto equilibrio tra quantità di uva e pianta, per esempio, e questo consente poi di creare vini di grande eleganza in cantina. Cosa che sull’Etna, devo dire, è più semplice, perchè il Nerello Mascalese se vinificato come si deve è di suo un vitigno che esprime grandi profumi e grande beva”.
Ma con uno come Ferrini, che l’evoluzione del vino italiano l’ha vissuta dagli anni 80, “da quando ho avuto la fortuna di partecipare ad uno dei progetti più belli della viticoltura italiana, Chianti Classico 2000, dove già si parlava di zonazione, che poi si è arenata e di cui, come ho detto, oggi si è tornati a parlare ma in maniera per me sbagliata”, le riflessioni vanno oltre i due territori in cui ha fatto approdo. E spaziano, per esempio, sull’evoluzione della critica enologica: “secondo me negli anni è molto migliorata in generale, c’è più conoscenza, si assaggiano molti più vini, e questo è un bene. Quello che personalmente dispiace è vedere tutta questa grande frammentazione, e aver assistito alle tante divisioni che ci sono state negli anni (come quella tra Gambero Rosso e Slow Food o tra Ais e Bibenda, per esempio), e sogno che le cose magari un domani si ricompongano. Ma una cosa fa riflettere: mi sembra impossibile che tra i tanti vini che vengono premiati dalle tante guide nazionali, non ci sia mai un gruppo di 20-30 etichette che mette tutti d’accordo”.
E in quarant’anni di carriera ai massimi livelli, se dovesse scegliere un insegnamento che ha imparato e da trasmettere, Ferrini dice “la modestia. Ho imparato a parlare e ad esprimermi solo su quello che conosco bene. Non solo nel vino. E penso che se tutti facessimo così, le cose andrebbero meglio, in ogni campo”.