L’incontro è davvero in tema, come ricorda il presidente del Comitato di Tutela, Gerardo Nicolosi: “Stiamo per concludere il progetto di rinnovo dei costumi del Corteo Storico, e ci sembrava idoneo con l’argomento di oggi”. Si parla di costumi, di società, di lusso e di sfarzo nella Siena del Trecento e Quattrocento. È il primo appuntamento storico-culturale del calendario di “Montalcino d’Ottobre”, con le archiviste Maria Assunta Ceppari e Patrizia Turrini ad intrattenere gli ospiti per un’ora abbondante nel Complesso di Sant’Agostino. Prima però c’è spazio per i ringraziamenti. A Cristina Paccagnini, per aver scelto il tema, e a Roberto Caselli, salutato dall’architetto Edoardo Milesi: “Se siamo qui oggi è grazie a Roberto. Mi ha fatto conoscere i Quartieri e ha voluto portarli a Ocra. Il suo sogno era di riunirli per fare belle iniziative”.
Si comincia con Maria Assunta Ceppari, che fissa il punto di partenza nella storia: 1250. Siena è un centro finanziario di grande importanza grazie ai suoi commercianti, che tornano in patria con le tasche piene di fiorini. È Cecco Angiolieri a descrivere con ironia un mercante senese: “Quando Ner Picciolin tornò di Francia / era sì caldo de’ molti fiorini / che li uomin li parean topolini / e di ciascun si facea beff’e ciancia”. Il lusso però contrastava con la povertà che era molto diffusa, da qui l’esigenza di porre un freno all’enorme spreco di sostanze. “Il testo più antico, del 1250, prevede 22 norme sulla materia – spiega Ceppari -. La finalità è colpire il lusso dei due momenti più importanti: le nozze e i funerali. E quindi niente doni e omaggi di cibo, ristretti numeri di partecipanti ai banchetti, vesti a lutto riservate solo ai parenti stretti. E lo strascico vietato alle servette, che non si voleva che imitassero le loro padrone”.
Nel 1284 una Commissione di saggi chiese al Governo dei Quindici di revisionare la normativa sul lusso. Come viene giustificata, questa richiesta? “Le signore senesi erano così ambiziose e amanti del lusso e dell’apparire che amavano sfoggiare abiti costosissimi, a tal punto da consumare le sostanze di famiglia visto che familiari non erano in grado di dire no o accettavano per mostrare l’opulenza della famiglia”, continua l’archivista. La richiesta dei saggi venne approvata. Nella normativa, tra le altre, c’è un divieto di portare scollature ampie e uno strascico troppo lungo.
Poi i testi vennero tradotti in volgare per essere più comprensibili ai cittadini. Un ufficiale aveva il compito di guardare come era vestita la gente, quali gioielli esibiva, e nei giorni festivi andava in Chiesa. Venne ribadita una norma già esistente: non andare in giro col volto velato. Per le donne c’era una multa lieve, per gli uomini ben più alta perché si pensava fossero dei malintenzionati. Nel 1316 si proibì l’uso delle perle, e da lì partì un inasprimento con norme sempre più restrittive che culminarono con multe altissime, inesigibili. Si tornò a livelli più normali nel 1343, con l’istituzione del Donnaio. Che non si occupava solo del lusso delle donne, ma anche gli uomini e pure i bambini. Una balia venne vista con due bambini vestiti come principini: una collana di perle, un berrettino rosso e una medaglia d’oro. Gli unici esclusi, gli unici privilegiati, erano i cavalieri, i dottori, i medici. Potevano vestirsi come volevano.
C’era poi la cassettina delle denunce segrete. Chiunque poteva metterci dentro un biglietto per fare denuncia, e se questa era attendibile si apriva un’inchiesta. Se l’inchiesta andava a buon fine chi aveva denunciato si prendeva un quarto della tassa. Per questo, nel biglietto, l’autore della denuncia faceva un disegnino, per renderlo riconoscibile al momento della riscossione.
Ma perché questo accanimento verso il lusso e lo sfarzo? Probabilmente perché erano spese improduttive, non producevano ricchezza. La sete d’Oriente era costosissima, poteva valere un intero patrimonio. E i governanti preferivano indirizzare i soldi verso più proficui investimenti. Cosa ci insegna tutto questo? “Il desiderio di apparire, nonostante le vessazioni dei governanti, non muore mai – conclude Ceppari - il gusto del bello è sempre vivo nelle società, altrimenti non sarebbero state necessarie tutte queste leggi”.
Patrizia Turrini allarga invece il suo concetto a tutto il territorio della Repubblica di Siena. A Paganico era vietata la presenza delle donne ai funerali, perché vedere femmine piangenti distoglieva dal comportamento religioso. Meglio evitare gioia, balli, canti e giochi in Chiesa, e ci voleva una netta divisione per i posti riservati a uomini e donne. In paesi come Gavorrano, San Gusmè, Sarteano, Chiusdino e Trequanda gli statuti imponevano sobrietà, specie nei pasti a spese della comunità. Soprattutto nelle comunità medio-piccole era onnipresente l’obbligo per almeno un componente della famiglia di partecipare a un funerale. Faceva eccezione il funerale di un bambino, evento così consueto che gli si attribuiva scarso valore sociale. Informazioni arrivano poi sulle feste di carnevale, le feste di maggio, le processioni, i pranzi per la mietitura. C’è un angolo anche per Montalcino: una lite tra un mercante fiorentino e uno montalcinese sul valore della merce, il flusso mercantile di merci prodotte nel territorio (cuoio, pelle, stoffe, manufatti) e poi esportate. Materiale trattato anche da due pubblicazioni: quella di Bruno Bonucci (“Festa e mercato nella Montalcino industriosa del Quattro-Cinquecento” del 2003) e quella di Giuseppe Catalani, “Lo statuto delle gabelle di Montalcino del 1389”, il primo volume della collana “I Quartieri per la Storia”, che presenterà la seconda edizione il 19 ottobre, sempre nel Complesso di Sant’Agostino.