Seicento sorsi d’amore: un vino, una storia, una grande passione

Seicento, come i sorsi d’amore che un vino può trasmettere a chi lo assaggia, perché nato da una storia particolare e, soprattutto, frutto di una grande passione: quella per Montalcino, la sua gente e la sua lunga tradizione enologica celebrata in tutto il mondo, che si intreccia, si tesse e si mescola con la storia di questo territorio. Come Carlo Cambi, giornalista e personaggio tra i più eclettici ed esperti del mondo del wine & food italiano, racconta in punta di penna. A partire da Massimo, il Brunello di Montalcino di Villa Le Prata, massima espressione delle vigne della famiglia Losappio, prodotto in sole seicento bottiglie, e dedicato dai figli al professor Massimo Losappio.

Ora Noé, coltivatore della terra,

principiò a piantare una vigna”

Genesi: 9, 1 ss.

Una “Cittadella” a Montalcino

Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa”. Recitava così, ancora negli anni ’70 il “giuramento d’Ippocrate” . E del resto quella era la vita del “dottore”. E’ vero che di lì a poco Alberto Sordi avrebbe girato “Il medico della mutua”, un “genere” che andava però nelle grandi città dove gli ambulatori erano catene di montaggio e i mutuati una sorta di filone aureo del Klondike alimentato da quella miniera di sprechi e di denari che era la mutua. Era l’Italia del post-miracolo e della pre-crisi petrolifera. Di lì a poco si sarebbe misurata con il disagio urbano, con la lotta di classe che ciecamente divenne lotta armata. Eppure allora come oggi quell’Italia lì era - per dirla con Ennio Flaiano - una “minoranza schiacciante”. Esisteva nelle periferie operaie di Settimo Torinese, di Sesto San Giovanni, viveva nella Roma che sperimentava le prime mollezze repubblicane dopo aver vissuto per millenni quelle imperiali e curiali, viveva nella Milano ancora non da bere ma già incline all’aperitivo che solo molti anni dopo si sarebbe chiamato happy hour, era la Milano dei Rizzoli, dei Pirelli, di Mediobanca sorvegliata dal “Cerbero” Enrico Cuccia e agitata da Giangiacomo Feltrinelli, guardata in supponenza dalla Torino della dinastia Agnelli. Era un’Italia parziale: dané, magnà, laurà. Vacanze in Versilia per gli abbienti, sulla Riviera Romagnola per i ceti operai e basso-borghesi. Prime settimane bianche fra Stelvio, Ponte di Legno, Abetone, Terminillo. Era l’Italia raccontata sui rotocalchi, che girava in “127”, evoluzione della “850”, del frigorifero per tutti, dei primi blocchi cucina dove furoreggiava il cocktail di scampi, la panna, prosciutto e piselli, erano gli anni del mangiadischi. La Rai trasmetteva ancora in bianco e nero e i canalierano solo due. Ebbene, lontana da quell’Italia lì, una minoranza appunto, viveva ancora l’Italia delle campagne che occupava ancora 4 milioni di persone, tant’è che la prima competenza che fu trasferita alle neonate Regioni fu proprio quella agricola. In quell’Italia non si poteva ancora divorziare e si pagava (per chi la pagava) l’Ige. Sembrano passati secoli e invece … invece è proprio negli anni ’70 che comincia questa storia di cui il giuramento d’Ippocrate è il sommario, o se preferite il fil rouge. Ancora una nota introduttiva, che però è paradigmatica dei giorni nostri. L’industrializzazione forzata seguita al Piano Marshall (subito dopo la guerra) si è appena conclusa: con essa si è chiusa la più imponente migrazione - forse sarebbe meglio definirla deportazione - interna del nostro paese.Dalle campagne i braccianti del Sud arrivano nel triangolo Mi-To-Ge, nel resto d’Italia le Partecipazioni Statali aprono fabbriche per puntare alla massima occupazione. Nascono i primi metalmezzadri nell’Italia di periferia: otto ore in fabbrica e qualche altra nel campo. In Toscana si va all’Italsider di Piombino, alle Galileo di Firenze, ai Cantieri di Livorno, tra i telai di Prato. C’è un’insopprimibile esigenza di cancellare la ruralità. Si barattano le madie del ‘700 con i tavolini di formica, si mangia carne e si scorda il pane. Il vino è ancora tanto in tavola, se ne beve un ettolitro a testa, ma il Biancosarti spopola. Come sempre tra le protagoniste della rivoluzione del costume ci sono le donne. Le operaie che hanno un salario si emancipano, i riti familiari cominciano ad essere erosi.Ovunque? No, non in campagna anche se è una campagna sempre meno popolata, sempre meno animata, sempre meno celebrata. I sociologi spingono per le concentrazioni urbane, gli economisti cominciano alcuni a pensare al mercatismo e al liberismo, altri allo statalismo, ma entrambi dimenticano lo sviluppo sostenibile, perciò osservano il conflitto che cresce incapaci di interpretarlo, gli urbanisti costruiscono le città alveare. Il mito è la tecnologia, l’industria, il consumo celebrato nelle cattedrali dello shopping: i supermercati che presto diverranno centri commerciali. L’America è il sogno per noi, mentre gli intellettuali americani continuano (allora come oggi) a studiare il latino e immaginano la Vecchia Europa come luogo d’intelletto. Forse stiamo parlando al presente? Può darsi. A pensarci bene gli squilibri che negli anni ’70 si chiamavano progresso, oggi sono la causa della crisi. Chissà che non sia venuto il momento per ricordarci com’eravamo negli anni ’70. In campagna. Per ripartire da lì, per vivere un nuovo Rinascimento, per rimettere al centro l’uomo. Del resto basterebbe rileggersi il “De Vita” di Marsilio Ficino. Ma anche il Piercrescenzi, e il Redi, o forse Columella. Oppure gli appunti di Giorgio Santi. Chissà.Questa storia ha la sua sorgente in un uomo, il corso tra le persone, come alveo una comunità. E’ un fiume di accadimenti, di sentimenti che riflette anche, ché nelle umane vicende non è data l’assenza di retrogusto amaro, “vaghe stelle dell’Orsa” di un leopardiano spleen, di un tormento nostalgico per il tempo che trascorre ineluttabile e origina certo Ricordanze. Ma quando sono contrappuntate dall’ottimismo della volontà tornano, da diacroniche che erano, a farsi armonia nella partitura della speranza. Ed è il racconto di un Rinascimento privato. Che ha per incipit quella frase dettata nel quinto secolo avanti Cristo: “Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa”.

E’ questo il più effimero e insieme più vivo e pesante bagaglio che un giovane medico si porta dietro nel 1970 mentre sale i contrafforti che da Buonconvento menano a Montalcino. Ha con sé la famiglia: la moglie Marialuce che farà da precettrice a generazioni di figli della campagna, due dei suoi figli che diverranno tre tra queste colline, la passione per la sua professione e una vaga idea di che cosa sia abitare sul Monte dei Lecci. Sa però - per averlo studiato sui libri di storia della medicina - che sta per varcare la soglia di un Ospedale che ha sulle spalle otto secoli, che fu un potentato e il centro motore di altri otto spedali, tanti ce n’erano attorno alle terre di Sant’Antimo quell’abbazia che sfuma nel mito carolingio, e che ancora oggi a frequentarla si rischia l’estasi mistica, potentissimo fulcro di una civiltà che ancora stilla dalle querce, dalle pietre, dagli animi della gente di questo incipit di Val d’Orcia. Arriva Massimo Losappio da una brillante carriera accademica e si prova qui a Montalcino sul campo di una comunità dove fare chirurgia è prima di tutto occuparsi delle ferite da pennato di chi coltiva il bosco, che è stato barriera difensiva,universo biografico e sostentamento in saecula seculorum, dei pallettoni dei bracconieri, dei piedi rotti dalle zappe di chi suda una terra felice e asperrima, dei malanni che non si sono potuti curare perché come dicono i contadini “ci ho il male dentro”, ma anche tumori da operare e ogni genere di gravi malattie che trovano rimedio in quella chirurgia, che è stata la sua passione e che ha imparato nell’ottima scuola di Firenze. Sa anche Massimo Losappio che Montalcino abbraccia un contado vasto e che gli arriveranno dolori e volti sofferenti e cuori speranzosi dai quattro cantoni della valle. Da Trequanda, da San Giovanni d’Asso, da Buonconvento e poi da San Quirico. Nomi che a squadernarli così ti sembrano incompatibili con il male, con la malattia, con il dolore. Nomi che a sillabarli con il lessico edonistico di oggi sembra impossibile compitarli in un referto. Perché oggi s’immagina la campagna arcadica, molto pittoresca, la campagna dei primati del vino, delle terme à la page, degli agriturismo da copertina. Anni fa si ragionava attorno ai materiali promozionali della Toscana: colline pettinate, i roccoli di cipressi usati per l’uccellagione e poi abilmente elevati a luoghi liturgici di quella fisicoteologia d’impronta etrusca che tanta leggenda evoca, le olivete in ortogonale eleganza, le “leopoldine” alcove di dolci pensieri e di raffinati ozi. Ma non un volto, non una mano, non una goccia di sudore è stata rappresentata in quella iconografia. Ed egualmente raccontando Montalcino i più hanno sorvolato sul popolo, ma anche sulle statue lignee di Sant’Agostino, ma anche sui saperi artigiani. Pochi sanno dire dell’uomo che sussurrava alle api, il Franci, quasi nessuno sa dei carbonai, dei tagliaboschi. E dei frati che a compieta ancora cantano il gregoriano, là nel Getsemani di Sant’Antimo? E perché il Teatro si chiama degli Astrusi? E dei moti carbonari, della società operaia che per prima pensò alle pensioni, alle integrazioni salariali, alla mutua dei braccianti montalcinesi? E delle teste calde socialiste? E di quella intellettualità rurale che stampò a Montalcino una quantità di riviste da far invidia ai caffé letterari di Firenze? Sedendosi alla Fiaschetteria, ai soli caldi e agli effluvi inebrianti del Sangiovese, pochi percepiscono l’eco dei passi pesanti dei braccianti in Piazza Padella. Ancor meno quelli che possono intravedere tra gli arredi e le specchiere ottocentesche il riflesso di occhi frementi libertà, come quelli dei garibaldini che vollero aprire quel luogo per ritrovarsi a vagheggiare un futuro di eguali. Capita osservando il Palazzo del Comune di vedervi riflesso Palazzo Vecchio. Ma è una cartolina ciò che oggi resta. A dirne il vero: quella somiglianza è un tetragono monito che il Giglio volle contro la Lupa al fin piegata. Siena ghibellina e fiera tenne Montalcino per secoli: ne fece fortezza. Poi Carlo V decretò che i Medici la possedessero e oggi guardando la Fortezza si nota l’addizione fiorentina. Tutti sanno che Montalcino fu Repubblica degli esuli senesi, ma non tutti sanno chequell’esilio - che pure dà diritto a Montalcino e solo a Montalcino di figurarsi alleata in Piazza del Campo in quel simulacro di battaglia che però è tenzone autentica del Palio - fu guidato dai Pazzi: nomina sunt omina! Dacché una vena di follia, di ribellismo, di antagonismo comunque percorre gli animi montalcinesi. E del resto affacciandosi dal Santa Maria della Croce come si può non provare uno straniamento, come si può resistere alle Fate Morgane di un paesaggio talmente bello da sembrare non terreno? E’ un’estasi che può anche essere furore, che diventa creazione. E’ un paesaggio “arte fatto”, fatto ad arte, faticato, plasmato, interpretato, coltivato, sudato. Forza e intelletto hanno interpretato il Creato. E a cercare di comprendere le forme e le azioni, a contemplare in eccesso questo bello, i sintomi stendhaliani infermano il corpo, tanto le sensazioni sono acute e assolute. Forse questo c’è in un bicchiere di Brunello. Di certoquesto è Montalcino che si trasfonde nel Brunello, perciò quel vino è unico, perché unica è la sua terra, perché unica è la sua gente. Ma di tutto questo non v’è confidenza, talvolta neppure conoscenza. Se ne deve però avere coscienza: almeno tra coloro i quali abitano queste terre. Negli ultimi anni Montalcino è stata solo il Brunello, come se quel vino non fosse il frutto della terra inseminata dalla fatica degli uomini. Difficile immaginare un referto medico in queste terre così patinate. Perciò apparirà un reperto il narrare i giorni e gli anni, i sogni e gli affanni di un medico, professore e chirurgo: Massimo Losappio. Ci vorrebbe qui la penna di Arcibald Joseph Cronin per riscrivere “La Cittadella”. Raccontare del professore e del suo rapporto con Montalcino è l’evocazione di un roman de vie. Anche Losappio si trova a curare gli umili, anche Losappio si porta come Andrej Manson un suo dolore dentro, anche il nostro professore sceglierà alla fine la campagna come luogo dell’intima gioia, della fattiva quiete, dell’identità operosa. La sua è una storia di vita che approda alla vite dopo aver rincorso, recuperato, sofferto tante vite. Ma questa “Cittadella” di Montalcino ha un diapason di sentimento e uno scenario tutt’affatto diverso dal capolavoro di Cronin: qui non v’è alcun disincanto, qui non v’è nessuna albagia. Gli effluvi di disinfettante, le notti di travaglio, la valigetta in cuoio con lo stetoscopio, gli emetici, le garze, i ferri sono gli stessi, ma in questa storia poiché è una vita in forma di romanzo, non ci sono eroi negativi, ci sono soltanto accadimenti reali, intendimenti ideali e non c’è neppure un happy ending, poiché è una storia che continua. Per dirla con Sant’Agostino il tempo di questa storia è un presente del passato, un presente del presente, un presente del futuro. Semplicemente perché l’attore è un uomo, ma il protagonista è un territorio: inteso come contenitore geografico di un contenuto di umane nature. Il protagonista qui è Montalcino. E il Brunello è il lessico attraverso il quale il protagonista si esprime. Dacché in questa vicenda se c’è un interrogativo, come s’addice ad ogni azione che abbia per teatro il mondo, esso è: è Montalcino a fare il Brunello o è il Brunello a fare Montalcino? Recenti vicende che hanno riguardato più il vino che non il borgo dovrebbero indurci non a interrogarsi, come è stato fatto, se in questa Danimarca ci sia del marcio, ma piuttosto a chiederci con Shakespeare: “se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine”. Ed ecco che la storia del professore riaffiora a dirci che, sì, basta recuperare la propria identità, attraverso una ricordanza, per pigliare le armi del cuore, dei sentimenti, del costituente antropico di una comunità, per porre fine ad un mare d’affanni. Per contrastarli in fin dei conti basta essere come si è davvero, che è in strettorapporto di causa effetto di come si è stati. Dunque non un remake è questa “Cittadella” montalcinese, ma semmai un ritratto di famiglia in un interno. Nell’intimità di una comunità.

 

 

L’approdo all’Ospedale e Don Remo

Scrive da erudito, storico locale e perciò ammaliato dalla sua terra, Tullio Canali nel ‘700: “Questo Ospedale di Santa Maria della Croce è sostegno di questa Città di Montalcino per essere distribuite tutte le sue grosse entrate a beneficio di tutti li suoi paesani”. Sono passati quasi trecento anni. I Lorena hanno svuotato i beni dell’Ospedale, lo hanno ridotto ad un solo presidio di nove che ce n’erano sul territorio, destinato solo alla cura degli ammalati e non anche all’ospitalità dei viandanti e degli infermi, ma anche nel Novecento, anche con la Repubblica Italiana (dopo che la società operaia di Montalcino era stata fautrice dei moti risorgimentali e aveva aperto la casa di riposo e dato assistenza a generazioni di contadini e di boscaioli) l’Ospedale di Montalcino conserva la sua nobiltà di storia e la sua indefessa e indefettibile funzione sociale. Arriva il nuovo, giovane primario di chirurgia. Massimo Losappio ha nei suoi progetti di medico e di chirurgo altri orizzonti. Vuole fermarsi solo un paio d’anni: la struttura sanitaria è piccola, il lavoro tanto. E poi c’è Marialuce con il suo andare e venire dalla scuola e Luca, il figlio maggiore, che ha necessità diavere la mamma accanto sempre e il sostegno di papà, mentre Bernardo appena sgambetta. Il professore però ha nella sua valigia anche quel giuramento di Ippocrate. E dunque finchè c’è da stare si sta: al massimo! Montalcino - per dirla con Dante - però è un magnete che “intender no la può chi non la prova”. Il professor Losappio viene cooptato tra i maggiorenti. Comincia a frequentare Franco Biondi Santi e l’avvocato Colombini e le sue case, e poi il farmacista, stringendo amicizia con Ilio Raffaelli, che si può dire l’unico sindaco veramente amico. Ma soprattutto comincia a farsi parte della società complessa e complessiva di questo piccolo immenso mondo di campagne, di vigne, di boschi. I contadini gli vogliono bene, e quasi fossero degli ex voto cominciano a invitarlo alla benfinita della caccia al cinghiale. Poi c’è Luca che all’aria buona di Montalcino, agli stimoli di quella campagna, migliora, si sente a suo agio. Sorride Montalcino al suo professore e fa una certa meraviglia vedere il chirurgo che la domenica in piazza qualche volta ricuce i cani delle mute sventrati dai cinghiali. Ma come si fa a dire di no? C’è chi rinuncerebbe alla moglie piuttosto che al cane! E inizia la seduzione sottile e maliarda di queste pietre, di questi profumi. Di questo piccolo borgo antico che nei secoli ha perso popolo, ma non fierezza. Nei primi anni ’70 a Montalcino sono rimasti in seimilacinquecento da oltre diecimila che erano appena un secolo prima. Tanti sono sparsi in campagna e ora che l’Ente Maremma ha suonato il de profundis alla mezzadria ci si aspetta che la terra si spopoli ulteriormente. E invece no: si resiste a far olio, a far grano, a fare anche vino. Ma il Brunello è poca cosa, cosa da intenditori, cosa da raffinati. Il rosso di queste terre si vende a damigiane, a botti, si vende presto e anche abbastanza bene. Basti dire che gli ettari iscritti alla Doc sono un’ottantina, le cantine che lo producono meno di venti. Tancredi Biondi Santi proprio nel ’70 fa la sua ultima vendemmia: s’avvia a coltivare la vigna celeste. Di chi dopo la fillossera aveva continuato a fare Brunello non c’è rimasto quasi nessuno: Paccagnini, Anghirelli, Angelini, Vieri Padelletti hanno cessato dopo la prima Guerra Mondiale. Solo i Biondi Santi, i Colombini, i Costanti, la tenuta del Poggione hanno continuato a battere il mercato, ad affinare il vino. Certo la rinascita del Brunello è stata designata da Ferruccio Biondi Santi, ma è suo figlio Tancredi che, fondando prima la cantina cooperativa, poi ampliando le coltivazioni del Greppo e rifacendosi agli insegnamenti di Giorgio Santi, dà la svolta decisiva. Ora c’è Franco Biondi Santi, suo figlio, a continuare la dinastia e la missione di fare del Brunello un vino di caratura mondiale. Ed è proprio Franco Biondi Santi, insieme all’avvocato Colombini e alla figlia Francesca, a trasmettere al professore la passione per il vino. Massimo Losappio quando non è in Ospedale, quando non sta in famiglia, si divide tra la Piazza e la campagna. Lo osserva di sottecchi Don Remo. E’ un prete sui generis: conosce tutti, soprattutto conosce tutto. Ha in mano le terre e le finanze della diocesi. Ma è un prete di grande cuore e diventa uno degli amici di Luca. Così il professore se lo ritrova sempre in casa, in Ospedale, in Piazza. Finché una bella mattina Don Remo lo chiama in disparte e gli propone un affare, che dice il prete, è anche una buona azione (Wall Street però non c’entra). Ci sono da comprare undici poderi, in bella posizione, ci si può fare vigna e poi ci sono le case. Ci vogliono otto milioni. Una cifra importante, ma insomma il professore - pensa il prete - se la può anche permettere. E se l’affare si fa, Don Remo promette che trova anche chi si può occupare della terra. Ma il professore pensa ad altro, ha altri orizzonti. Ringrazia, ma declina l’affare. E’ presto per mettere radici lì a Montalcino, pensa Massimo Losappio. Ma tornando a casa sente che si è detto una bugia.

 

 

Il primo ettaro e Primo de’ Poggi

Sono passati una decina d’anni e Massimo Losappio è ancora in servizio permanente effettivo a Montalcino. Fa anche il medico di campagna, nonostante sia chirurgo e primario dell’Ospedale. La gente va da lui anche se il figliolo ha la febbre, gli chiedono consiglio in Piazza e di fatto il suo ambulatorio è il paese. Un giorno il Ciatti, primo presidente del Consorzio del Brunello, porta il professore a fare una passeggiata in campagna. C’è un lungo viale di cipressi, poi un prato e attorno un campo fiorito. E’ una primavera profumatissima, come solo Montalcino offre quando il bouquet del bosco portato dal Maestrale si diffonde e si confonde con i pollini. In mezzo a quello splendore scandito da lecci e querce secolari s’erge un casino di caccia di architettura solida e armoniosa al tempo stesso. Un flash. I ragazzi sono cresciuti e sarebbe bello che potessero avere un posto dove assaporare fino in fondo la campagna. Il professore ci pensa un po’ su. S’informa. La Villa è bellissima, l’ha costruita nell’anno dell’Unità d’Italia il conte De’ Vecchi. Sta lì dal 1860. E’ un po’ distante dal paese, nella strada che porta a Castiglion del Bosco. Ma Sant’Antimo non è troppo lontano, l’Orcia sciacqua a un amen, le leccete si rincorrono a disegnare un infinito smeraldino. Ne parla con Marialuce. La domanda, che prevede già la risposta, è: che si fa? Stavolta Don Remo non c’entra, ma era destino che l’affare si facesse con la Chiesa. Villa Le Prata, si chiama così dal toponimo dove sorge, era diventata, dopo che il De’ Vecchi aveva lasciato, il buen retiro del Vescovo di Montalcino. Luogo di ecclesiale villeggiatura estiva - era questa la pratica dei Granduchi di villeggiare in campagna dalle parti della Maremma per sfuggire alle calure afose della capitale fiorentina e tutti i maggiorenti avevano preso ormai da buoni quaranta lustri a seguire il sovrano esempio - era anche luogo sacrale della natura. Ma ora il nipote di sua eminenza aveva deciso di vendere. Se ne parlava in paese ma a Montalcino ogni affare privato finiva allora per diventare res publica. Forse in questo l’epoca dei Pazzi non è mai tramontata. E il professore stavolta si lasciò convincere dai sentimenti. Così nel 1980 comprò Villa Le Prata. Ci vollero due anni buoni di restauri e di adattamenti per entrarci dentro. Il lavoro lo hanno fatto i montalcinesi più bravi di pialla e di cazzuola. Insieme alla Villa fu acquistato il primo ettaro di terra. C’erano delle vigne spargole, ma nessuno che si volesse, in famiglia, dedicare sul serio a produrre il vino. E ancora una volta - per dire come Montalcino avesse un grumo di solidali incoraggiamenti - furono Franco Biondi Santi e Francesca Colombini Cinelli a convincere il professore. Che aveva imparato ad amare il Brunello, ma poco sapeva di botti e barbatelle. Fin quando il destino non volle che il cerusico si facesse seguace di Ippocrate non solo nel giuramento. Va detto per completezza che medicina e Dioniso sono andati in stretta compagnia dai tempi dei tempi. E se Ippocrate aveva inventato l’ippocrasso (l’antenato del vermouth) come vermifugo e sanificatore delle complessioni infette e deboli mescolando vino, miele, erbe e fortificando con spirito, i chirurghi sommamente rappresentati dalla scuola di Bologna non operavano dall’alto medioevo in avanti se non in presenza di grandi quantità di vino che serviva a disinfettare le ferite operatorie, ma anche a parziale anestetico. C’è dunque nel destino di ogni medico l’ipotesi di farsi vignaiolo. Soprattutto se facendo il chirurgo si ha la ventura di togliere qualche pallettone, che non dovrebbe esserci, da una gamba. Come nel caso di Primo de’ Poggi: uno dei più abili agricoltori, potatori, innestatori di vigna che queste terre abbiano conosciuto, ma anche scaltrissimo abitatore dei boschi e dunque bracconiere per definizione, anzi, meglio, per vocazione. Primo era solito montare le poste col fucile caricato a molla. Successe che un giorno si scordò della posta e si autoimpallinò. Di corsa all’Ospedale con una preghiera: professore non mi denunci. Pensate che fosse il timore del Maresciallo? Ma neanche per idea. Si fosse saputo come Primo de’ Poggi s’era ferito, l’etichetta di bischero sarebbe stata imperitura in paese e soprattutto la sua luciferina autorità druidica ne avrebbe ricevuto un colpo mortale. Il professore non ci pensò nemmeno a denunciare. Operò, estrasse e salutò. L’aveva giurato in gioventù: “mi asterrò dal recar danno e offesa”. Danno non l’avrebbe fatto, ma se si fosse saputo del fattaccio di Primo de’ Poggi l’offesa sarebbe stata sicura! Ma non passò qualche settimana che Primo si presentò a Le Prata con tanto di vanga e di marze in mano. “Professore questa terra senza vigna è sprecata”. E senza neppure attender risposta l’ettaro era diventato un vigneto con l’aiuto di tutti i contadini di Montalcino. Finalmente il professore avrebbe avuto il suo Brunello. Anche perché nel frattempo a Montalcino tanto era cambiato. Erano passati quasi vent’anni dall’approdo al Santa Maria, una quindicina dal benevolo assalto di Don Remo, quasi dieci dall’acquisto di Villa Le Prata. Ora il Brunello percorreva il mondo sulle ali dell’entusiasmo d’immagine e del successo commerciale. Ora i produttori erano cento, gli ettari a vigna quasi duemila. Più di ottocento li aveva piantati Ezio Rivella con la Banfi e anche il Castello di Poggio alle Mura, uno dei simboli del territorio montalcinese abbandonato per secoli, era tornato grazie agli investimenti della famiglia Mariani a nuova vita. Ora il Brunello aveva forza commerciale. La culla restava il Greppo, la storia rimaneva a dipanarsi tra le vicende delle famiglie antiche, ma l’attualità era fatta dei numeri, degli investimenti, della tante bottiglie e dello sforzo di comunicazione di questa nuova azienda. E intorno tanti piccoli produttori avevano cominciato a fare Brunello. Alcuni erano venuti da fuori: portafogli gonfiati dai proventi di industrie e professioni riversati a fertilizzare i nuovi vigneti di Brunello, altri erano i figli o i nipoti degli antichi mezzadri. Tanti ne aveva cresciuti il professor Losappio, tanti ne aveva curati. E per mano di Primo de’ Poggi ora anche lui era salito in giostra.

 

 

Vendere? Meglio bere

A Montalcino c’era una sorta di corsa all’“oro rosso”. Tutti volevano fare e vendere il vino. Si parlava di terra e di vigna come forse nel lontano West si parlava delle pepite. Il professor Losappio era quotato al box office come il prossimo concorrente sul mercato del Brunello. Ma di bottiglie sue non se ne vedeva neppure una sugli scaffali. La cosa destava curiosità, ma anche sospetto. Ma come, a Montalcino c’era gente che con un paio d’ettari s’era rimessa in piedi, e il professore che a Le Prata aveva una delle vigne più belle non s’era buttato nella mischia? Difficile spiegare che si può fare il vino anche solo per passione. Eppure a Montalcino dove da secoli si faceva il vino per sostentamento, per nutrimento e per esperimento - come dimostrava la dinastia Biondi Santi che restava la custode dell’ortodossia e della memoria di uno dei più grandi vini che il mondo possa conoscere - il senso di quella rinuncia doveva essere patrimonio comune. Si poteva fare vino anche solo per berselo in orgogliosa santa pace. Ma il fatto è che Massimo Losappio aveva finalmente ricevuto il contagio di Bacco. Ora coccolava il suo vino, ora ne faceva oggetto di affetto e tramite di sentimento. Prima vendemmia nell’‘89. Se ne fecero seicento bottiglie. Di quelle non una è uscita da Villa Le Prata se non come omaggio, se non come libagione. Venivano a Villa Le Prata gli amici di sempre, venivano i contadini ad assaggiare. Era un peccato non venderlo, era un gran vanto averlo assaggiato. In fin dei conti la magia del Brunello sta in questo: è un omaggio del Creato agli uomini. Degustarlo è (o dovrebbe essere) un atto d’amore per la terra. E’ un vino che più che un prezzo ha un valore. E Massimo Losappio lo aveva capito ascoltando da quasi trent’anni il cuore della gente. E non solo in camera operatoria. Ma il Brunello aveva deciso di diventare una sorta di “gazzosa purpurea” per il professore. Jostein Gaarder pubblicherà “L’Enigma del Solitario” in Italia nel 1996. Attenzione quella data ha un senso in questo roman de vie. Ma la “gazzosa purpurea” per Massimo Losappio era stata già prodotta nell’‘89 e aveva prodotto i suoi effetti. Che cos’è’? E’ una bevanda filosofica capace di dare sensazioni così soavi, inebrianti, trascendenti, capaci di portare ad un stadio di coscienza altro e diverso dal terreno. Con quella prima vendemmia era successa una cosa così. Che forse è accaduta a tanti montalcinesi, inconsapevolmente. A spiegarla servono le parole di Gaarder. “In qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, potrebbe spuntare un minuscolo giullare coperto di campanelli. E allora, guardandoci dritto negli occhi ci ripeterà le domande: Chi siamo noi? Da dove veniamo?”. Quel giullare si chiama Brunello, quelle domande se le pose anche il professore. Ed è così che questa storia continua.

 

 

Empoli, quasi un esilio

Massimo Losappio dopo oltre trent’anni di servizio a Montalcino diventa primario all’Ospedale di Empoli. Proprio negli anni in cui le radici del suo Brunello si erano fatte più robuste. C’era da pigliare un’altra decisione. Andare? Far tornare Villa Le Prata alla sua origine: di casa di villeggiatura estiva. Nuovo consulto di famiglia e ora Marialuce che ha voglia di viversi fino in fondo quella che è diventata la sua terra e che vede Luca sereno - Bernardo ormai avvocato abita a fondo Montalcino come la terra degli affetti, Benedetta ha voglia di provarsi con il vino, invogliata ad occuparsene anche dal marito Alessandro, pronto a sostenerla in questa attività - è risoluta: non se ne parla nemmeno. Così il professor Losappio, che non aspetta altro che un no per potersi sentire in pace e dire “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”, accetta - assai volentieri - di portare la croce del pendolare. Giorgio Dotti il farmacista glielo ha del resto profetizzato. Tu da qui non ti muoverai più. Montalcino non è una terra promessa, ma una promessa che si fa alla terra: di appartenerle eternamente. E il professore comincia la sua diaspora quotidiana da e per Empoli. La professoressa, la signora Marialuce, intanto ha ulteriormente affinato la sua appartenenza a Montalcino che significa assoluta indipendenza e insofferenza alle regole. Si racconta ancora in paese di quando una sera che era nevicato, e quando a Montalcino nevica lo fa sul serio: soprattutto a Le Prata quando tutto pare un presepe e il mondo diventa un francescano Cantico delle Creature, la signora pigliando una curva un po’ arzilla andò a sbattere con i carabinieri. Li andò a trovare in Ospedale e poi disse: “quando vi si cerca non ci siete mai, ma proprio lì dovevate stare?”. Pare che il professore quella sera abbia fatto Empoli-Montalcino con il cuore in gola. Ma appena arrivato in paese lo accolsero dicendo: un si preoccupi è tutto a posto. Già. In paese c’era ancora - e ancora c’è anche se qualcuno glissa - una solidarietà militante. Erano anni duri per il professor Losappio in bilico tra il giuramento d’Ippocrate e il fascino del Brunello. Capitava infatti che qualche sera appena tornato da Empoli dovesse ripartire perché c’era un caso urgente. Accadde anche una sera di tregenda quando si doveva però svinare. Marialuce era in ansia come per un parto. Era tardi. Il professore arrivò, ma al primo boccone di ribollita squillò il telefono: l’Ospedale. Una signora di Empoli in preda alla disperazione s’era buttata dalla finestra. Bisognava operare d’urgenza. Professore venga, era l’imperativo. Massimo partì e Marialuce però fece in tempo a dirgli: Ora te dimmi che vita è questa: una si butta e te vai a salvarla. E poi che ci si butta dalla finestra a quest’ora?”. Scene di borgo rurale, scene che paiono di un altro mondo. Ma del resto a casa Losappio il telefono era una specie di fire allarm, sì come quello dei pompieri. Squillava sempre e comunque e l’ordine dato in famiglia era: si risponde sempre e comunque. Perché se c’era bisogno del professore, di quell’uomo che aveva giurato “regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze”, non si poteva non rispondere. Del resto a Montalcino esiste una costituzione materiale che è una sorta di soccida umana: ci si dà una mano, sempre.

 

 

La “prigione” di Soffiantini e la vigna nuova

Montalcino ha vissuto sotto i riflettori spesso per via del Brunello. Dalla fine degli anni ’80 in avanti non c’è stato tiggì, non c’è stato programma che si occupa di enogastronomia o di ruralità che non abbia puntato le telecamere sul Monte dei Lecci. C’è la vendemmia? Vai a Montalcino. E qualcuno si ricorda ancora di quando in piazza vollero allestire un tino per pigiare l’uva coi piedi. Si può dire? Fu un’idea coi piedi. C’è il Vinitaly? Si parte con un pezzo da Montalcino. C’è Cantine Aperte? Si gira a Montalcino. Dalla BBC al Giappone, dalla Cbs alla Rai tutti hanno fatto un set a Montalcino. Una mediatica ode al Brunello. Che ha qualche artefice, anche se a Montalcino fanno finta di non saperlo. Strano in una piccola città che ha avuto più giornali - in proporzione - di Roma. Ma ci fu un periodo in cui le telecamere arrivarono, non per il Brunello, ma per un clamoroso caso di cronaca. Era il 1997 ed era stato rapito l’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini. Una vicenda tragica che costò la vita ad un poliziotto, che tenne l’Italia con il fiato sospeso per quasi un anno, che ebbe un enorme clamore perché una lettera con un orecchio mozzato dell’ostaggio venne recapitata al Tg5 ed Enrico Mentana, allora direttore, la lesse in diretta. Per settimane a Montalcino non si parlava d’altro. Anche a Villa Le Prata. Ma per altre ragioni. La casa e la vigna della famiglia Losappio erano finite, come altre proprietà di Montalcino, all’interno della zona rossa. Era convinzione degli inquirenti che la prigione di Soffiantini si trovasse proprio lì. E avevano recintato tutto. Ovunque poi c’erano telecamere, pulmini con le antenne paraboliche. Insomma un animato fronte di guerra. Dopo qualche giorno di questi “arresti domiciliari” la professoressa Marialuce salì in cattedra e disse basta. Non potevano costringerla ogni volta a presentare i documenti per tornare a casa sua, né le andava di vedere pattuglie e mitra spianati. Così protestò. Montalcino venne liberata dall’assedio. Applausi a scena aperta. Ancora una volta gliene aveva dette quattro e come di prassi in paese non si parlava d’altro. Ma quelli erano a Villa Le Prata giorni intensi anche per un altro motivo. Benedetta aveva intenzione di mettersi a fare il vino sul serio. Quel Brunello di papà meritava di essere bevuto non solo in famiglia, doveva cominciare a camminare per il mondo. Così approfittando della legge sull’imprenditoria giovanile nel ‘97 fu comprata un’altra vigna. Il progetto era nato già l’anno prima, in contemporanea con L’Enigma del Solitario. Dove sta scritto: “La differenza tra Socrate e tutti gli altri era che questi ultimi, pur non sapendone più di Socrate, erano soddisfatti di quel poco che sapevano. E chi si accontenta di ciò che sa non potrà mai essere un filosofo”. Più o meno questaera la sfida che Benedetta stava lanciando: non so bene come farò con la vigna, ma so che voglio farlo. E a Villa Le Prata prese corpo quel sogno filosofico. Era una vigna sotto Castelnuovo dell’Abate a cui si sarebbe aggiunta un paio d’anni dopo un’altra vigna nei pressi del Castello della Velona. Ora Villa Le Prata aveva quattro ettari di Brunello. Ma intanto dal ’93 le prime bottiglie di papà Massimo avevano cominciato a prendere le strade del mercato. Verso l’America, e il Brasile. Una goccia, pregiatissima, nel mare dei vini di Montalcino. Ma la rivoluzione economica di Montalcino aveva preso corpo e bisognava pur parteciparvi. In fin dei conti anche se ora a fare vino erano in tanti c’era quell’intimo legame con la terra a cui chi da tanti anni aveva dipanato qui la propria esistenza era chiamato a dare testimonianza vera e attiva.

 

 

Sant’Antimo, il Comune, la Piazza

Viversi Montalcino e vivere a Montalcino significa prima di tutto spendersi per questa terra. Massimo Losappio lo aveva appreso e compreso nei primi anni di sala operatoria, d’influenze curate nell’ambulatorio ambulante di Piazza Padella. Ma dopo la prima ubriacatura da successo planetario alla fine degli anni ’80 c’era bisogno di ritrovare una identità di comunità a Montalcino. Così il professore assieme ad altri decide di rivitalizzare la fondazione Amici di Sant’Antimo. E’ stata fondata nel ’77 ma nasce ufficialmente a ridosso del Natale dell’‘85. Lo scopo è duplice: incrementare la consapevolezza dell’unicità di Sant’Antimo che è un costituente primo del territorio di Montalcino, difendere e diffondere la cultura conventuale di questa mistica e antica abbazia. Nel consiglio di cui Massimo Losappio è vicepresidente c’è una gran parte dell’anima di Montalcino. Si incontrano lì dove i monaci ancora perpetuano le antiche liturgie, Fabio de’ Vecchi, il presidente, Padre Andrea Forest, il notaio senese Nanni Guiso, Francesca Colombini Cinelli, Maria Floria Petri Biondi Santi, Ida Barni Comparini, Carlo Barabino, Maria Del Bigo Capaccioli, Luigi Batignani. Prendono vita dagli Amici di Sant’Antimo i concerti, i premi di pittura e fotografia, i raduni culturali e spirituali. Sant’Antimo torna proprio negli anni ’70, dopo oltre mezzo millennio di oblio, ad essere di nuovo comunità monastica con giovani frati agostiniani venuti dalla Francia a ripercorrere forse la storia, certo la leggenda che vuole sia stato Carlo Magno a porre il suo sigillo su questo luogo unico di culto, su questa architettura che è forse l’esempio più alto di romanico in Toscana. E del resto come Montalcino appartenne a Sant’Antimo dal XI al XII secolo così oggi non si comprende fino in fondo Montalcino se non si ascolta Sant’Antimo. E se lì risiede l’anima, lo spirito di questa terra, nel municipio, ché orgogliosamente Montalcino fu uno degli ultimi liberi Comuni, risiede il senso della comunità. E anche alle elezioni amministrative più volte il professore si è prestato a candidarsi per dare voce alla diversità di idee sulla città, ma non in contrapposizione piuttosto in funzione di lievito di un dibattito che la città deve tenere vivo per potersi immaginare nel proprio futuro. Quel dibattito che per secoli è stato il canovaccio della vita pubblica recitata a soggetto sul quel palcoscenico di bello conformato che è Piazza Padella. E dove ancor oggi un orecchio attento, un cuore aperto, e un intelletto discreto può sentire il respiro della storia, l’incombenza dell’attualità, l’urgenza di futuro della città.

 

 

Seicento sorsi d’amore

La “Cittadella” di Montalcino è dunque questa storia. La storia di un uomo che si è innamorato di una terra, del popolo che l’ha conformata, l’ha nobilitata, l’ha perpetuata intrecciando la vita alla vite. Massimo Losappio è stato fino all’ultimo suo giorno terreno un inquilino devoto di questa terra. Ha servito con la sua professione-missione, dacché ripeteva che fare il medico non era un esercizio d’opere, ma un atto di dedizione all’uomo, la gente di questi luoghi, ne ha ricevuto in cambio il concretarsi di una passione. Che è stata prima di tutto passione civile, amore per la terra, tentativo di comprensione olistica dell’universo di Montalcino. Ha costruito insieme alla sua famiglia, ma anche grazie ai montalcinesi, Villa Le Prata che oggi è una cantina capace di produrre 18.000 bottiglie di Brunello e di Rosso di Montalcino, ma che è prima di tutto un presidio della storia, della vita, dell’identità di questo territorio. L’impegno della famiglia Losappio - da mamma Marialuce, a Benedetta che si occupa dell’azienda sostenuta dal marito Alessandro, da Bernardo che come avvocato si è messo al fianco dei produttori, del consorzio per cementare la comunità nel territorio e attorno al vino, ad Anna sua moglie, a Luca che è stato il primo testimone dell’amore di tutti per questa terra - è quello di continuare a dare il frutto della radice che Massimo Losappio ha piantato nel cuore dei montalcinesi: la radice della solidarietà, della comunità, del rispetto per questa natura benevola. Così è nato “Massimo”, un Brunello che è la massima espressione delle vigne della famiglia, ma che non è un prodotto, un’etichetta. No: è una testimonianza. Sono solo 600 le bottiglie, tante quante ne produsse la prima vendemmia di Villa Le Prata, tante quante accesero in Massimo Losappio il desiderio di fare il suo vino, tante quante per anni il professore ha con pazienza e amore atteso per condividerle con gli amici. Sono non 600 bottiglie ma 600 sorsi d’amore dichiarato al territorio di Montalcino, di una Montalcino che c’è, che vive ancora la sua profonda identità, pur nelle trasformazioni. Il massimo sarebbe che attraverso “Massimo” s’innescasse un viaggio sensoriale e d’intelletto in questa regione per capire la ragione della sua unicità che sta nel conformarsi e confermarsi della comunità in questo ambiente unico che ha un respiro d’universo. Ha scritto Galileo Galilei che il vino è un composto di umore e luce. Questo vino è un composto di amore e terra, di umori collettivi e di luci perpetue, questo vino è un composto d’affetti e di intelletti comuni. Questo vino è Montalcino.

Carlo Cambi

giornalista

 

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