“Questo Forum è un’occasione per dibattere sulle eccellenze della nostra esperienza produttiva, sulla crescita delle competenze professionali che l’hanno accompagnata, ed induce a guardare alla strada percorsa sin qui: una strada di continua e crescente garanzia di alta qualità”: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sabato scorso, ha aperto il suo intervento al “Forum della Cultura dell’Olio e del Vino” n. 44, promosso da Bibenda & Fondazione Italiana Sommelier (Fis), con la regia di Franco Maria Ricci, all’Hilton Cavalieri di Roma. Un discorso, tenuto davanti ad una prestigiosa platea, composta da produttori ed esponenti del settore vitivinicolo e oleario, dal Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e dal Ministro della Cultura Alessandro Giuli, che ha ribadito l’importanza che il mondo dell’agroalimentare riveste sul piano economico per l’Italia, a cominciare dal vino e dall’olio, in un’epoca in cui, però, incombe la minaccia dei dazi oltreoceano da parte dell’amministrazione a stelle e strisce guidata da Donald Trump.
Tra le varie personalità che si sono alternate sul palco, al cospetto del Presidente della Repubblica, c’è stato anche Angelo Gaja, l’“artigiano” del vino italiano per eccellenza, produttore, dal 1994, di Brunello di Montalcino, con Pieve Santa Restituta, che ha raccontato - un po’ a nome di tutti gli imprenditori del vino italiani - come si è evoluta la produzione del vino negli ultimi decenni nel Belpaese e di come i prodotti italiani si sono fatti strada sui mercati internazionali, all’insegna della qualità e della cultura.
Focus - Gli interventi di Sergio Mattarella, Franco Maria Ricci e Angelo Gaja
“Chi non è più giovane - ha affermato Mattarella - ricorda la triste vicenda del metanolo quasi 40 anni fa, con vittime, invalidità permanenti, tanti intossicati. Allora Governo e Parlamento intervennero con decisione, modificando regole di tutela, ma a prendere coscienza furono soprattutto gli operatori del settore che, con la loro azione - con l’enologia divenuta una scienza - hanno assicurato immagine e prestigio al settore vitivinicolo. I vostri sono settori consapevoli di quanto l’impegno verso la qualità, con la salubrità degli alimenti, rechi beneficio ai comparti agricoli italiani, incrementando il valore delle produzioni, aprendo mercati all’estero, conquistando a vino e olio, in particolare, la responsabilità di rappresentare, nel mondo, un modo di essere italiani. Contribuendo alla stessa domanda di Italia nel mondo. L’agroalimentare, oggi accanto alla cultura, al design, alla tecnologia, costituisce veicolo e attrattiva del modello di vita italiano. L’Italia è il secondo produttore mondiale di olio di oliva, l’export registra un valore di circa 3 miliardi di euro. Per quanto riguarda il vino, con un valore dell’imbottigliato che, nel 2024, ha superato i 14 miliardi di euro; con un export di quasi 8 miliardi che, per il 90%, si esprime nelle denominazioni di qualità. Conoscete bene queste cifre: ne siete protagonisti. Io desidero sottolineare il significato di queste tendenze positive, perché si riassumono nella manifestazione di qualità. Filiere, quindi che mettono insieme territori, saperi, professionalità, sostenibilità e salubrità, capacità di marketing e realizzano, così, un valore immateriale che va oltre gli addetti ai lavori, gli stessi consumatori, generando beni comuni. Elementi vitali per comunità gravate, spesso, nel secondo dopoguerra, dal fenomeno dell’abbandono delle terre. Dunque anche il valore del recupero di vita per le aree rurali e interne del nostro Paese. Produrre significa, infatti, abitare un luogo, averne cura questo è un merito di grande rilievo per chi vi si dedica. Tra di loro, le donne imprenditrici, i giovani che guardano alle campagne come opportunità, le strutture cooperative, sovente a servizio delle filiere vinicole e oleicole. Lo sviluppo di cui potete nutrire orgoglio si è verificato perché avete avuto la capacità di guidare l’innovazione, così importante in agricoltura. Avete saputo mettervi insieme, misurarvi con la crescente dimensione internazionale, senza timore di mercati prima sconosciuti e in cui, oggi, i prodotti italiani sono leader. Il futuro non si costruisce vivendo di nostalgie. Varrebbe anche per gratuite tentazioni di nostalgia alimentare: oggi i cibi sono sicuramente più salubri e controllati di un tempo. I progressi avvengono raramente per caso. Sono, piuttosto, frutto di intuizione, studio, determinazione, impegno, capacità di operare facendo sistema. L’agricoltura non fa eccezione. E, se oggi possiamo parlare di “Dop economy”, lo dobbiamo alle scelte di ammodernamento operate agli albori della Repubblica e alla nascita delle Comunità Europee si valuta che i prodotti Dop, cibo e vino, valgano intorno ai 20 miliardi di euro (il 20% dell’intero fatturato agroalimentare) di cui larga parte alimenta le correnti export, metà delle quali, a loro volta, sono rivolte fuori dalla Unione Europea. Sappiamo che la nostra Costituzione è l’unica del suo tempo a dedicare un articolo al settore primario e alle condizioni necessarie a promuoverne lo sviluppo: l’art. 44. Il Trattato di Roma del 1957 che diede vita a quelle allora chiamate Comunità Europee, all’art. 39, poneva per la futura agricoltura del continente, gli obiettivi di: incrementare la produttività agricola; assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola, con il miglioramento del reddito di coloro che lavorano in agricoltura; stabilizzare i mercati; garantire sicurezza degli approvvigionamenti; assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori. Così l’agricoltura divenne - e rimane - un motore dell’integrazione europea - non elemento di retroguardia da sussidiare - essendo, al contrario, una chiave per politiche, oltre che produttive, volte alla salvaguardia della salute dei consumatori e alla promozione dei territori e delle popolazioni in essi insediate. I risultati di quelle scelte politiche sono sotto gli occhi di tutti: l’Italia è il primo Paese dell’Unione Europea con prodotti agricoli espressamente indicati come meritevoli di tutela: 856 possono avvalersi di questo scudo. I risultati sono rilevanti anche sul piano sociale. I dati parlano di 330.000 occupati nella filiera del vino, di 110.000 occupati in quella dell’olio d’oliva. È facile indicare di chi sia il merito di tutto questo: è anzitutto degli agricoltori, impegnati direttamente nella conduzione delle loro aziende. Vorrei aggiungere, tuttavia - ho citato le esperienze cooperative - anche l’elemento associativo dei Consorzi di tutela. Sono oltre trecento quelli, promossi dagli operatori, che giocano un ruolo cruciale nella gestione delle indicazioni di provenienza e qualità, garantendo la protezione, la salubrità, la promozione e la valorizzazione di prodotti che rappresentano le eccellenze italiane, a livello sia nazionale sia internazionale. Vorrei aggiungere il vissuto dei territori e le capacità di rappresentarlo. Vorrei proseguire facendo riferimento alle intuizioni che hanno orientato questo processo. Poc’anzi, Angelo Gaja (il cui intervento segue, ndr) ha citato il nome di Paolo Desana, senatore della Repubblica, promotore della legge che, nel 1963, diede il via alla tutela delle denominazioni vinicole. Desana, - internato militare italiano nei lager tedeschi per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre 1943 - fu espressione del Monferrato - terra a schietta vocazione vinicola - e protagonista di una battaglia parlamentare che definì l’impianto legislativo, poi riassunto a livello europeo. Desana fu, altresì, colui che propiziò la prima riflessione organica sulle aree collinari nel dopoguerra, con il convegno nazionale convocato a Cerrina Monferrato nel 1955. Alla sua azione e alla sua figura va reso omaggio viti e ulivi caratterizzano un territorio. Va detto di più. L’ulivo, in particolare, ha disegnato - e caratterizza - un’intera civiltà, quella del Mediterraneo. Un simbolo di pace, di serena longevità rispetto alle impazienze del presente. Un territorio custodisce anzitutto la propria diversità. Riguardo all’agricoltura va richiamata la ricchezza delle biodiversità. Ci soccorre anche qui la nostra Carta costituzionale, all’art. 9. Lo ricordava Angela Velenosi: le cultivar dell’olio sono strettamente legati al territorio, alla tutela delle sue vocazioni. Con queste colture si tramandano peculiarità culturali e conoscenze, ben sapendo che occorre saper affrontare le sfide dei tempi. Si pensi alla Xylella, ai cambiamenti climatici che affliggono l’agricoltura. Oggi nessuno si permette più di sottovalutare o addirittura di irridere questi pericoli. Avveniva negli anni scorsi. L’innovazione non è nemica dell’agricoltura, al contrario. È decisivo il valore delle tutele unitamente all’innovazione: vi è, ogni tanto, la tentazione di prendere scorciatoie, di superare le tutele, considerate come impedimenti, come fastidi. È il contrario. È lo stretto legame tra tutele e innovazione che produce progresso. Un prodotto tipico, gli ulivi, le vigne, ad esempio, sono qualcosa di più, oggi, di un semplice dato agroalimentare per un territorio. Lo caratterizzano. Tanto più in un Paese, come il nostro, dalle mille campagne, dalle mille produzioni tipiche. Mario Soldati che ci ha lasciato poco più di venticinque anni fa, cantore del rapporto tra paesaggi, uomini, donne, case e casali, vigne, cibo, sottolineava per il vino - ma può applicarsi a qualsiasi produzione agricola di qualità - che esso si gusta e si capisce soltanto quando si entra in confidenza con l’ambiente dove è nato. Non può essere un oggetto staccato e astratto, separato dal suo luogo. Questa è la ragione delle nuove fortune per i luoghi di produzione, interessati da un turismo attento ed esigente. Ecco il senso dell’ulteriore apporto solidale che vino e olio offrono ai territori di elezione e alla loro gente. Le risorse alimentari, in tempi come quelli che viviamo, con la guerra ai confini dell’Europa, acquisiscono ancora più valore. Lo abbiamo visto relativamente al grano nella contesa che ha visto l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Nuove nubi, nel frattempo, sembrano addensarsi all’orizzonte, portatrici di protezionismi immotivati, di chiusura dei mercati dal sapore incomprensibilmente autarchico, che danneggerebbero in modo importante settori di eccellenza come quelli del vino e dell’olio. Produrre per l’auto-consumo ricondurrebbe l’Italia all’agricoltura dei primi anni del Novecento. Legittimamente le associazioni dei produttori esprimono preoccupazione per le sorti dell’export. Misure come quelle che vengono minacciate darebbero, inoltre, ulteriore spinta ai prodotti del cosiddetto “italian sounding”, con ulteriori conseguenze per le filiere produttive italiane, non essendo immaginabile che i consumatori di altri continenti rinuncino a cuor leggero a rincorrere gusti che hanno imparato ad apprezzare. Commerci e interdipendenza sono elementi di garanzia della pace. Nella storia la contrapposizione tra mercati ostili ha condotto ad altre più gravi forme di conflitto. I mercati aperti producono una fitta rete di collaborazioni che, nel comune interesse, proteggono la pace. Signore e signori, siete parte di quel che oggi l’Italia sa proporre con le sue eccellenze. Testimonianza della vitalità della sua società civile e delle sue forze produttive e le istituzioni devono essere a fianco dei vostri sforzi e del vostro lavoro. Grazie per quello che avete fatto e fate per qualificare la presenza italiana nel mondo”.
“Ci siamo incontrati alla Luiss il 2 luglio 2018 - ha affermato Francesco Maria Ricci, rivolgendosi a Mattarella -, anche lì per un convegno di vino. Lei in quell’occasione prese atto delle mie parole e ricordo che mi donò un sorriso per assentire al concetto di grande cultura che stavamo celebrando. Una cultura antica, quella dell’olio, del vino e dei prodotti della Terra. Grazie per essere qui nel cuore di una scuola di alta formazione che insegna questa cultura ai giovani e ai meno giovani. Ogni giorno dell’anno lo ha fatto con milioni di persone compiendo in questo 2025 i suoi 60 anni. Lei oggi ci ha fatto l’onore di entrare in questa Fondazione offrendoci in dono un segnale forte di adesione al nostro impegno. Grazie - ha ribadito Ricci - oggi, alle parole del vino e dell’olio di due illustri produttori, aggiungo grazie al Signore e alla Terra che ci li ha donati. E con ammirazione penso al lavoro delle donne e degli uomini, molti qui presenti, che rendono l’Italia il più ricco Paese al mondo. Avrebbe avuto 100 anni oggi, Luigi Veronelli. Dobbiamo a lui, al suo testamento nel 2004, la volontà di costruire un importante corso sull’olio extravergine di oliva. Da 21 anni le nostre aule parlano dell’olio d’Italia, alimento prezioso per la salute e per il piacere. Il nostro grazie per esserci accanto al Ministro dell’Agricoltura, convinto com’è della strada che stiamo percorrendo per i giovani, gli agricoltori, per i produttori, per l’Italia. E che abbiamo sentito convinto che l’Italia debba introdurre nelle scuole l’insegnamento dei prodotti della terra. I produttori di olio presenti, e noi che l’olio lo raccontiamo, abbiamo pensato di donarle un olivo, che verrà piantato nella Tenuta di Castel Porziano, un simbolo di vita e di longevità. È un leccino di 100 anni, immune alla Xylella. È il ricordo di questa giornata per tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di essere affianco al nostro Presidente, che stimiamo e ammiriamo per il dono della sua vita che ha dedicato alla nostra Italia. Insomma, signor Presidente è mio dovere farle ascoltare le parole dell’olio e del vino affinché possa proteggere il nostro impegno che svolgiamo con tutto l’amore possibile e le auguro di bere sempre le migliori bottiglie con le persone che ama”.
“Sono un privilegiato - ha affermato Angelo Gaja - perché non mi sarei mai sognato di parlare un giorno di fronte al Presidente della Repubblica ed a questa platea di personalità politiche, imprenditori produttori dell’olio e del vino, e di sommelier ma questo succede solo a Roma, e ogni volta che c’è il Forum dell’Olio e del Vino, edizione n. 44 della Fondazione Italiana Sommelier che sono seminatori di cultura. Ho dato un titolo al mio intervento “Il cammino del vino italiano”, ma devo essere breve, perché se dovessi descriverlo tutto non basterebbero settimane. Negli ultimi 70 anni c’è stata un’evoluzione nel mondo del vino, ovunque nel mondo, non solo in Italia, straordinaria ed incredibile, cambiamenti profondi, di innovazione ed evoluzione, nel vigneto, in cantina e nel mercato, a cui ho avuto la fortuna di assistere, avendo iniziato a lavorare in azienda nel 1961, e avendoli vissuti per oltre 60 anni. Non è che abbia capito tutto, ma ho appreso molto da questo percorso straordinario del vino italiano. Ma torniamo indietro, al decennio Cinquanta-Sessanta: in Italia si producevano anche dei vini di qualità da parte dei piccoli artigiani, ma la stragrande maggioranza erano vini banali, imbottigliati in fiaschi e bottiglioni da 2 litri che esportavamo. Eravamo alla deriva, e ci voleva un colpo di reni. E abbiamo avuto la fortuna di avere un senatore come Paolo Desana, originario di Casale Monferrato, che ha avviato il progetto delle Doc, e lo ha sostenuto per 20 anni nonostante i contrasti dovuti ad interessi diversi, con l’obiettivo di arrivare al loro riconoscimento con la legge quadro 930 del 1963, con i primi vini che usciranno sul mercato nel 1966, il Brunello di Montalcino, il Barolo ed il Barbaresco ma in quale direzione si voleva andare? Anziché come si faceva prima con vini che principalmente portavano il nome varietale, ma non si sapeva da dove provenivano anche per le mescolanze, volevamo legare il nome varietale al luogo di origine, al territorio. Un progetto ambizioso che richiedeva del tempo, e c’è n’è voluto per realizzarlo. Perché era quello di valorizzare, di tutelare, le varietà indigene e storiche. Questi vini che si producevano venivano definiti dal mondo anglosassone “cheap & cheerful”, di basso prezzo e di qualità modesta, cosa che volevamo superare con le Doc. Ma sempre gli anglosassoni ci accusavano di confusione perché rispetto ai francesi, che avevano solo la Doc, volevamo avere due riconoscimenti con anche la Docg, e volevano sapere con quale garanzia. Ma siamo stati capaci di correggere questa confusione e di venire apprezzati per le nostre produzioni. In quel momento in Toscana, che produceva anche allora bottiglie di Chianti eccellenti, ma c’era una massa che andava nel fiasco abbastanza banale, dove qualche volta si ricorreva fino al 40% di varietà bianche come il Trebbiano, dei coraggiosi volevano ridare dignità alla loro terra. Nel 1968 esce il primo Sassicaia, nel 1974 il Tignanello, vini prodotti con varietà internazionali, Cabernet e Merlot nella fattispecie, che esprimevano un livello qualitativo elevato, ma con sempre gli anglosassoni a dirci che non potevano rientrare in una denominazione di origine controllata, e che, nonostante li giudicassero migliori e li pagassero un prezzo più elevato, invece noi li chiamavano vini da tavola: sono poi diventati i Supertuscan, ma ci sono voluti 25 anni per farli rientrare in un’Igt, entrata in vigore nel 1994. Che cosa ha dimostrato l’Italia? Che è capace di lavorare su due tavoli - e ci viene riconosciuto ovunque - quello delle varietà indigene e quello delle varietà internazionali. Questa è una ricchezza dell’Italia costruita in 70 anni e che oggi rappresenta un patrimonio straordinario. Lentamente ci siamo resi conto che le varietà indigene sono la nostra “Riserva Aurea”, sono il nostro “Fort Knox” e che è lì che dobbiamo attingere, perché non c’è nessun Paese al mondo come l’Italia in cui i vigneti sono dappertutto, in tutte le regioni, oltre 300 varietà indigene che danno vini diversi e che sorprendono: è una ricchezza straordinaria. C’è voluto tempo per capirlo, ma oggi ne siamo consapevoli. Perché fanno del nostro Paese uno “scrigno di bellezza” ad arricchire il quale abbiamo contribuito anche noi viticoltori per anni e di generazione in generazione, dal mare alle montagne, anche se normalmente le varietà indigene riescono ad esprimere livelli di qualità elevati in collina, perché la vite ha bisogno anche di terreni magri anziché super ricchi, e trova nel vigneto un’eccellenza. Cosa dobbiamo fare ora? Imparare a meravigliarci di questa bellezza che abbiamo: l’Italia è uno scrigno di bellezza e la meraviglia ci aiuta a capire che dobbiamo conservare, tutelare e proteggere questo paesaggio, un patrimonio incredibile ovunque. E dove i vigneti originano vini di luogo, ed ormai nel mondo ci viene riconosciuto che la forza del vino italiano sta nel produrre vini da queste varietà indigene, storiche, locali, che esprimono l’identità di ogni regione. Per quanto riguarda, invece, il mercato, e quello estero in particolare, abbiamo lavorato tutti molto, partendo da un livello molto basso, e cercando di far crescere il riconoscimento e l’apprezzamento dei vini italiani, e non ho mai visto un riconoscimento così chiaro, definitivo e assoluto sulla qualità media del vino italiano che è salita enormemente, come oggi, anche grazie a chi ha organizzato tanti eventi fuori dall’Italia. C’era un momento in cui anche i giornalisti mi dicevano che guardavo solo all’estero: non è vero, perché l’Italia è il mio mercato di riferimento in cui devo essere capace di collocare i vini nei locali, dove le bottiglie si bevono e vengono apprezzate. Ma l’estero è un mercato enorme e c’è anche l’orgoglio di portarvi l’italianità, e la necessità, perché abbiamo una produzione importante, meno della metà consumata in Italia, e il resto all’estero dove dobbiamo essere capaci di costruire la domanda. A costruirla sono state prima di tutto le cantine medio-grandi che hanno fatto un lavoro straordinario nell’aprire i mercati esteri. Poi ci sono le aziende micro artigianali: in Italia ci sono oltre 30.000 cantine, l’80% sono medio-piccole e con un fatturato sotto il milione di euro. E sono un patrimonio enorme e creativo, che non va coperto di burocrazia, perché hanno una funzione straordinaria, perché sono il sogno di soggetti anche istruiti che vivono in città, ma che desiderano andare a lavorare in campagna ed avviare la loro produzione, e nessun altro prodotto come il vino sa salire sul palcoscenico. Queste cantine piccole ed i loro artigiani del vino appassionano molti giovani enoturisti, anche di città, e il mercato, si sa, si nutre di novità. I piccoli hanno la funzione di avviare la passione e la conoscenza dei giovani che vivono in città e non conoscono la provincia italiana verso il settore, insomma. Siamo in un momento di grandi sfide: per affrontare il cambiamento climatico dobbiamo avere una disponibilità quotidiana all’adattamento nel vigneto, in cantina e sul mercato. Dobbiamo sforzarci di imparare a leggere il presente con gli occhi di domani non di ieri, come lei ha detto, Presidente, con creatività (e penso anche all’Intelligenza artificiale). Certo che gli occhi di ieri ci servono per capire gli errori che abbiamo commesso, ma dobbiamo affrontare il futuro e abbiamo tutte le possibilità di farlo. Ci vuole questo coraggio. Il vino è una bevanda culturale straordinaria, ha una profondità che nessun’altra bevanda alcolica al mondo ha, ha radici che vanno nell’umanità, nel paesaggio, nella storia, nella filosofia, nella cultura, nella tradizione, nella religione. Non è facile condensare tutto questo in un messaggio, ma dovremo anche riequilibrarlo, perché dobbiamo aiutare le persone a capirlo, ma anche che lo devi bere con misura, con buonsenso, con consapevolezza, non mi piace moderazione. E dobbiamo anche essere consapevoli che ci sono Paesi come l’Asia e come l’Africa, dove si aprono nuove frontiere, lentamente ma che maturano, perché vi si stanno piantando vigneti. Paesi che non sono concorrenziali, ma che accrescono la conoscenza del vino. L’ambizione di questi soggetti che piantano vigneti anche dove non mai è stato fatto prima è, infatti, anche di esprimere il loro orgoglio identitario anche attraverso il vino, e così cresce anche la cultura dei locali che poi, ovviamente, sono aperti anche verso altri vini. Dove dobbiamo guardare per il nostro futuro? Ai giovani donne e uomini preparati, che conoscono le lingue e che sanno usare tutti gli strumenti possibili, e che sono nel mondo del vino e che saranno capaci di sorprenderci perché crediamo in loro. Hanno la possibilità di guadagnarsi spazi nei mercati esteri e portare alta la bandiera italiana. Sta a voi percorrere questa strada. Infine, voglio dire qualcosa anche sull’olio: la pianta di olivo ha una bellezza incredibile, e anche qui saranno i giovani il futuro con il loro coraggio di piantare nuove cultivar dopo la Xylella, e di portare alta la bandiera italiana grazie all’olio, insieme a noi produttori di vino”.