I turisti stranieri sono sempre più interessati all’enogastronomia italiana e meno all’arte e alla storia, l’enogastronomia sta rubando all’arte il podio della prima motivazione di viaggio verso l’Italia ma nonostante questo nel programma didattico degli Istituti turistici ci sono 66 ore all’anno di arte e territorio e zero ore sul wine and food, come se i turisti di oggi fossero gli stessi del 1990. Si spiega così la creazione di un “Centro studi sul turismo del vino e dell’olio”, all’interno dell’Università Libera Università Maria Santissima Assunta (Lumsa) di Roma, con l’obiettivo di formare giovani capaci di trasformare l’evoluzione del turismo del vino e dell’olio in sviluppo sostenibile.
Il Centro studi è stato annunciato nel corso del seminario “Evoluzione dell’offerta turistica e necessità formative” che si è svolto ieri alla Lumsa, moderato dal giornalista Rai Tiberio Timperi, alla presenza, tra gli altri, del Ministro del Turismo Daniela Santanchè, del padre della Normativa nazionale su Enoturismo e Oleoturismo Dario Stefàno, del presidente Assoenologi Riccardo Cotarella e della produttrice di Brunello, nonché ideatrice del Movimento Turismo del vino e di Cantine Aperte, Donatella Cinelli Colombini.
4 cantine su 10 si definiscono “piccole e con accoglienza familiare”. Nonostante la loro piccola dimensione, o forse proprio per quella, le imprese del vino, negli ultimi dieci anni, hanno investito massicciamente sull’incoming turistico. Esso genera tra il 6 e il 14% del giro d’affari delle cantine ma in termini di marginalità vale il doppio. Oltre a costruire punti vendita e sale da degustazione troviamo il 72% che offre pranzi e fra loro un terzo ha il ristorante. Il 32% delle cantine turistiche offre anche pernottamenti. Contemporaneamente il turismo ha creato un’economia parallela in molte delle città del vino dove un terzo degli occupati e del Pil dipende dai viaggiatori. Questo spiega perché luoghi come Barbaresco o il vicino comune di Treiso sono fra quelli dove la media delle dichiarazioni Irpef è più alta.
In questo clima molto propositivo c’è un grosso freno: la mancanza di manodopera formata e capace di dare slancio a imprese e territori. Il 44% delle cantine e quindi delle città del vino, sono fuori dai flussi turistici e enoturistici. Si tratta soprattutto delle zone interne verso cui, invece, bisognerebbe spingere una parte dei visitatori che sovraccaricano alcune destination come Venezia, Firenze, Roma … creando il cosiddetto “overtourism” che genera crescenti disagi alla popolazione con un effetto inverso sulla sostenibilità economica. Per decentrare i percorsi di viaggio verso i territori del vino servirebbe personale formato in uffici turistici, assessorati e Strade del vino, ma non c’è.
Nelle cantine i problemi sono diversi ma altrettanto seri: il 74% ha difficoltà a reperire personale formato con una punta oltre il 90% in Veneto. Le imprese del vino fanno fatica a diversificare le proposte e nella stragrande maggioranza offrono, con piccoli distinguo, la visita guidata con la spiegazione dei processi produttivi e un piccolo assaggio. Per questo il 65% degli enoturisti dice che le cantine “sono tutte uguali” e il rischio che l’enoturismo “venga a noia” è dietro l’angolo perché il turista è un “amante infedele”. Inoltre le imprese non riescono a trasformare i visitatori in clienti abituali come avviene invece in California e infatti il 52% delle cantine vorrebbe assumere ma non riesce a trovare persone competenti in marketing enoturistico.