Premio letterario per Riccardo Boccardi

Riccardo Boccardi, 44 anni, amministrativo, grafico editoriale e microscrittore montalcinese “Per aver saputo inventare una vicenda umana piccola ma molto evocativa e commovente, che si fa grande come il mare che i due protagonisti si ritrovano davanti sul finale, dopo una burrascosa fuga in Vespa nella campagna toscana, e che ci parla di un mondo antico fatto di fatica e minuscoli ma decisivi gesti quotidiani che tutto illuminano, che tutto riscattano”. Con queste motivazioni Riccardo Boccardi, insegnante e scrittore montalcinese, ha vinto il primo premio al “Vespa chi scrive”, il primo concorso letterario nazionale ideato dalla Fondazione Piaggio, in collaborazione con Scuola Carver. Il tema era il viaggio e molti scrittori lo hanno declinato con la Vespa co-protagonista, compagna di vita e di percorsi per intere generazioni. La premiazione si è svolta il 1° ottobre nell’Auditorium del Museo Piaggio, a Pontedera, e ha visto trionfare il racconto “La steccia” di Boccardi. “Della scrittura di Boccardi colpisce anche la grande sensibilità narrativa e l’accuratezza lessicale, con una notevole aderenza linguistica al mondo che viene costruito e proposto al lettore”, ha spiegato la giuria, presieduta dallo scrittore Marco Malvaldi, che ha selezionato i 35 più meritevoli che sono entrati a far parte di un libro-antologia, presentato al pubblico in occasione della cerimonia di premiazione. Complimenti dunque a Boccardi, già noto al pubblico per i suoi “Racconti Crestati”, brevi storie raccolte in un libro uscito nel 2019, presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino e raccontato anche sulla Rai.

Il testo del racconto “La steccia” di Riccardo Boccardi

Clelia lo sentì arrivare a metà mattina, mentre affastellava le spighe imbiondite dal sole di luglio. L’ombra del cappello riusciva a proteggerle solo la faccia arrossata dalla fatica. Sul collo delicato, scendevano gocce di sudore, rivoli lucenti nella pelle impolverata. Ormai conosceva bene il rumore del trabiccolo che Ermanno aveva comprato di seconda mano da un cugino di Pisa. Una strana motoretta color salvia, tutta tonda, che a lei in fin dei conti piaceva. Come quella non se ne vedevano nelle sterrate attorno al podere e nemmeno in paese. Chissà? Forse era l’unica in tutta la Val d’Orcia. Comunque, sempre meglio del barroccio! Quanto era scomodo il barroccio? Lento, duro e per farlo andare in ogni caso serviva una coppia di bovi.
Adesso che lo scoppiettio si faceva prossimo, il cuore di Clelia iniziò ad agitarsi come i gazzillori che da bambina teneva legati con un filo alla zampa. Fino a pochi minuti prima, quell’idea restava una fantasia da innamorati, ma adesso che il ronzio d’insetto si stava avvicinando, la ragazza dubitò del progetto che li aveva appassionati per settimane. All’improvviso, la calura del giorno non riuscì più a scaldarle i piedi. Anche le mani si erano intorpidite, fredde come zappe a gennaio. Ermanno stava arrivando, ma lei era pronta a lasciare genitori e fratelli? Inoltre, cosa avrebbe detto il padrone? Per loro a mezzadria, quell’uomo arrogante contava più di Nostro Signore. Ripensò alla guerra che aveva portato tante lacrime in famiglia, Giovanni non era mai tornato. Che diritto aveva di far soffrire tutti di nuovo? Quando però Ermanno giunse sul ciglio del campo e poggiò le gambe a terra lasciando acceso il motore, le bastò incrociare i suoi occhi neri e speranzosi per avere la risposta. Il diritto di amare chi voleva, questo era il suo diritto. Osservò ancora la figura magra, infilata nel completo marrone della domenica e la decisione fu così semplice. Un’ultima occhiata al babbo che falciava lontano assieme ai fratelli, poi in silenzio strinse la madre che lavorava al suo fianco e infine corse spedita verso l’avvenire.
Mentre si allontanavano accelerando, l’una abbracciata all’altro, Clelia in lacrime gridò ai familiari:
– Vi voglio bene, perdonatemi. Vi voglio bene!
Nel giallo lago di grano nessuno si mosse, rimasero fermi ad osservare quella fuga strampalata, allocchiti da un sole accecante e prodigioso.
Al primo bivio, Ermanno ruotò lievemente la testa di lato e disse:
– Non ti preoccupa’ Clelia, vedrai che andrà tutto bene.
Alla ragazza il tono sembrò meno deciso di quanto avrebbe voluto, ma serrò la stretta delle braccia e premette il viso tra le spalle dell’amato. Il cappello volò via e fatti in aria alcuni arabeschi, si posò a bordo strada su un cespuglio di ginestre.
Erano passate un paio d’ore e viaggiavano ancora legati come un’unica persona. Il vento estivo scompigliava i capelli castani di Clelia che frastornata dallo strepitio del motore, costretta in quella posizione rannicchiata, stava rivalutando il barroccio. La tensione della partenza aveva lasciato il posto all’incoscienza giovanile: iniziavano a godersi la loro follia. Marciavano a velocità di crociera, appena più svelti di Bruzzichino, il cavallo del Gorelli di Pretenzano.
– Tra poco ci siamo Clelia, vedrai che spettacolo.
In effetti dopo alcuni chilometri lasciarono la statale per immettersi in una strada secondaria fiancheggiata da pini. A Clelia sembrava di aver vagato per secoli. La casa colonica era così lontana, quanto il gregge o le zolle spaccate dal sole. Aveva visto più mondo in quel breve tragitto che in tutti i suoi diciott’anni. Superati dei cartelli, imboccarono un minuscolo sentiero coperto di aghi e si fermarono in uno spiazzo ombreggiato. Nell’aria c’era un gran profumo di resina e le cicale cantavano senza sosta. Sistemarono la motoretta tra i frutici di lentisco, poi fecero due passi per sgranchire le gambe. Dopo, come se fossero stati lontani millanni, s’abbracciarono d’improvviso, con passione di serpi. Ermanno prese la mano di Clelia e disse:
– Vieni Tesoro, vieni con me.
Assieme s’incamminarono verso il tratto di macchia dove gli alberi diradavano. Salirono una collinetta sabbiosa cosparsa di cespugli intricati e là il ragazzo parlò emozionato:
– Siamo arrivati Clelia. Ti ricordi come ti rispondevo quando mi chiedevi “Ma te, Ermanno, quanto mi ami?”. Ecco, ora lo vedi…
Così dicendo allargò un braccio, come se scostasse una tenda.
Clelia, immobile, non rispose. Sotto al greve sole del pomeriggio, strizzava gli occhi per contemplare meglio quella luccicante meraviglia, azzurrissima e sconfinata.
Con calma, mano nella mano, proseguirono verso il borbottio della risacca. A vederli là, in piedi sul bagnasciuga, uno in completo di fustagno, l’altra cinta dall’ampia gonna impolverata, sembravano due burattini, così estranei allo sfondo. Eppure, avevano avuto il coraggio di rendere un sogno realtà e adesso la vita insieme si presentava vasta e ignota come il mare che cantava loro davanti.

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