Non ha certamente lasciato indifferenti e probabilmente se ne continuerà a parlare per molto tempo. Il riferimento è all’articolo pubblicato su Internazionale (si può leggere qui (https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/alessandro-calvi/2023/06/23/val-d-orcia-turismo-di-massa ) dal titolo “La Val d’Orcia si sta trasformando in un villaggio turistico” a firma di Alessandro Calvi, giornalista con una lunga esperienza e collaborazioni con diversi giornali italiani. Nell’articolo ci sono interviste, tanti spunti e riflessioni. Ma anche alcuni allarmi lanciati, ad iniziare da quanto si legge nel sottotitolo riassuntivo: “insieme al turismo di massa nella valle toscana sono arrivati i grandi investitori, che non hanno legami con le tradizioni e l’agricoltura del posto. Se i residenti se ne andranno, il paesaggio di queste campagne è destinato a scomparire”. Nel lungo articolo si parla di Valdorcia, anche di Montalcino, e di un territorio che cambia. Aspetti approfonditi anche da noi in passato, argomenti che a volte ci sembrano persino essere recepiti come un po’ scomodi quando si fanno le interviste che, ricordiamo, fanno parte di questo mestiere. Allo stesso tempo va comunque ricordata l’importanza, economica ed a livelli occupazionali, del turismo che oltre a portare dei cambiamenti ha generato anche benessere in una zona dove i collegamenti sono lontani (pensate alla distanza che c’è per prendere l’autostrada o un treno ad alta velocità) e con non molte prospettive per i giovani.
Ma torniamo all’articolo di Calvi, ne riportiamo qui alcuni estratti ma vi consigliamo di leggere comunque il pezzo integrale al link che abbiamo pubblicato sopra. “Il nuovo turismo post pandemia sembra infatti avere un rapporto distratto e, per così dire, molto rapido col territorio. Che mostra adesso evidenti segni di logoramento. Lo schema pare ricalcare quello ormai noto: i servizi per i turisti sostituiscono le attività necessarie per la vita dei residenti, e i centri abitati finiscono per trasfigurarsi in prodotti da vendere, anche favorendo la diffusione di un’immagine di sé decisamente stereotipata”. Così scrive Calvi che aggiunge “basta vedere i ristoranti che da queste parti stanno prendendo il posto delle vecchie osterie, o quelli che modificano aspetto e menu per corrispondere alle aspettative dei turisti, più che alle esigenze dei residenti. Finendo però per trasformarsi in una specie di caricatura della toscanità”. Le attività commerciali per i residenti si contano sulle dita di una mano, Calvi cita Pienza dove “nel centro ormai ci sono soprattutto botteghe che vendono il noto pecorino locale, qualche negozio di souvenir e di antiquariato, e poi ancora e ovunque formaggio. E naturalmente ristoranti. Solo la farmacia e il bar tabacchi sembrano destinati a chi a Pienza ci vive”. Calvi dice che “qualcosa di simile è accaduto anche a Montalcino. Qui il protagonista è il Brunello, tra i vini italiani più importanti, e che da solo muove l’economia di una parte pregiata della valle. Pienza e Montalcino però fino alla pandemia erano l’eccezione, mentre il resto della Val d’Orcia non era stato granché toccato dal fenomeno che ora invece comincia a dilagare perfino nelle campagne, oltre che nei paesi. Per esempio a San Quirico, che è sempre stato un paese vivo, abitato e non messo in scena, e che adesso mostra molte avvisaglie di pientizzazione. Non senza conseguenze”. Nell’articolo si legge che “ogni cosa diventa intrattenimento, con la Val d’Orcia costretta a farsi scena e luogo comune, consumando così - nella speranza di un arricchimento economico - la propria identità culturale, il paesaggio e la sua stessa storia”.
Ormai chi viene in Valdorcia lo fa “per percorrere rapidamente una specie di circuito, consolidatosi con la condivisione di foto e notizie sui social network, e costruito su 4 o 5 luoghi diventati ormai delle vere star. È il caso del famoso boschetto di cipressi tra San Quirico d’Orcia e Montalcino (di cui vi abbiamo parlato spesso, tra disagi causate dalle macchine parcheggiate ovunque e turisti in mezzo alla strada, ndr), ma anche di Poggio Covili con il suo scenografico doppio filare di cipressi, o di un vecchio edificio utilizzato anch’esso nel film con Russell Crowe, e per questo ormai noto come la casa del gladiatore”. Ma “qualcosa di simile accade perfino con il cibo, massimo vanto di questo paese e qui rappresentato sempre più dal solito tagliere di salumi e formaggi, oramai piatto unico di una tradizione toscana immaginaria. Ma forse ai turisti non importa più davvero cosa mangiano. Ciò che conta è l’illusione dell’esserci, e aggiungere un’altra foto alla propria collezione. Così da poter dire: “Anch’io””.
Si parla nell’articolo, con le dichiarazioni degli operatori del settore, delle difficoltà del grano e della pastorizia, l’autore scrive che “cambiano i colori, cambia l’aspetto della campagna, cambiano i ritmi del lavoro, e forse sono cambiate anche le ragioni stesse per cui queste campagne si erano meritate la tutela dell’Unesco. Tuttavia c’è chi prova a resistere”.