Una delle attività storiche di Montalcino rinasce con bellezza, passione e tanto gusto. Il caseificio dei Barbi, luogo di storia e innovazione, dove Fellini si innamorò di un pecorino invecchiato, tanto che spinse per farlo produrre perché tutti dovevano provarlo, torna agli antichi splendori riprendendo il suo ruolo: quello di eccellenza. Merito di Salvatore Soddu, della compagna Angela Zizi, due giovani sardi con tanta esperienza nel settore, e ovviamente di Stefano Cinelli Colombini, il proprietario della Fattoria dei Barbi. Una scelta d’amore la loro ma anche un progetto ambizioso, da affrontare tappa dopo tappa. Ma i primi risultati sono già importanti e chi lo ha provato il formaggio, realizzato nella storica fattoria, uno dei luoghi “iconici” di Montalcino e dei suoi prodotti, Brunello ma non solo, ne ha apprezzato la bontà. “Realizziamo tante tipologie di formaggi - spiega Soddu - la crosta è edibile e selezioniamo il pastore in Valdorcia per il latte. C’è tanto lavoro da fare ma siamo molto soddisfatti”. Buon lavoro ragazzi!
Focus - La storia del Caseificio dei Barbi raccontata alla MontalcinoNews da Stefano Cinelli Colombini
La campagna Senese è anche terra da pecore da lana, nel medioevo la Città si arricchì coi tessuti di pregio esportati in ogni Corte. Tante pecore, tanto formaggio. Ma poi questa tradizione si è persa, e con i suoi cento anni di storia il Caseificio dei Barbi è il più antico esistente a Montalcino e in Val d’Orcia. Ma come nasce? L’odierna Fattoria dei Barbi origina da un acquisto dei miei avi del 1794 o 1795, nei registri ci sono entrambe le date. All’inizio erano i tre poderi Podernuovo di sopra, Podernuovo di sotto e Podernuovo bianco che insieme formavano i Podernuovi, più il Podernovaccio in cima alla collina. Nel 1850 a metà strada tra questi due gruppi di edifici sarà costruito il Poggio, e si acquisterà dai Clementi la Fattoria dei Barbi, il Fiore e il Molin del Fiore che secoli prima erano state di noi Colombini. Ed è proprio al Mulino del Fiore che si deve l’inizio del Caseificio dei Barbi perché lì viveva una donna particolare, Rosa. Dicevano avesse le “mani calde”, con quelle e con le erbe curava la gente e faceva il formaggio. Ottimo, peraltro. Poi arrivò Bruscone, e suo malgrado finì sui giornali perché una storia intrigata tra lei, il marito, il bandito Baicche e Bruscone finì a fucilate. Bruscone accoppò Baicche e ne ebbe la Grazia Regia, iniziando così una lunga carriera di mito locale. Lei continuo a curare, e a fare cacio. Il Cacio dei Barbi. Era ottimo e si creò una sua piccola fama, così mio nonno Giovanni Colombini negli anni ‘20 pensò di attrezzare un vero caseificio e di venderlo con etichetta anche perché era molto diverso dal formaggio che si faceva da sempre a Montalcino: quelle erano forme basse e larghe, con un diametro di 15 o 20 centimetri e non più alte di cinque o sei, nere di fondi d’olio misto a cenere di legna e salatissime. Era cibo da miseria, tutto buccia e fatto per essere così duro che un boccone restava in bocca a lungo. A volte nell’impasto c’era pepe nero non tritato, quello avanzato dopo aver fatto il maiale.
Il cacio di Rosa era tutt’altra cosa, era cibo da signori e mio nonno lo mise in vendita con la sua bella etichetta nella appena restaurata Fortezza di Montalcino a fine anni ‘30. Era un pecorino fresco o secco simile all’attuale, forme a scalzo da un chilo e mezzo poco salate, con tutta la fragranza e il sapore delle pecore nutrite dalle nostre erbe. Fu un successo, che proseguì negli anni fino allo spostamento del piccolo caseificio dai Barbi alla sede attuale dei Podernuovi. A Rosa succedette la nipote, ancora di nome Rosa e ancora con le mani calde ideali per fare il cacio, e negli anni ‘60 iniziarono gli estimatori famosi. Piero Jahier, lo scrittore fondatore de “La Voce”, passava le estati ospite di mio nonno con Piero Bargellini e ne voleva sempre al ritorno a Firenze così come Federico Fellini, che ci convinse a farne forme giganti da cinque chili affinate per diciotto mesi che erano una autentica delizia amata anche da Sergio Zavoli e da tanti altri. Come tutte le strutture di Montalcino, anche il nostro caseificio dovette cambiare dopo l’esodo dalle campagne degli anni ‘50 e ‘60. Quella fu la fine degli ovini toscani, ma una numerosa comunità sarda arrivò con le sue pecore ridando vita alla tradizione del cacio.
Fu un arrivo felice anche per le tante terre non adatte a vino e olio destinate all’abbandono, la verde, curata e toscanissima Val d’Orcia che tutti amiamo è anche frutto di quel felice innesto isolano. Così come lo è il nostro caseificio, che ora è rivitalizzato da due straordinari giovani sardi. Tornando un passo indietro, negli anni ‘70 mi venne l’idea di recuperare un antico uso ormai presente solo nei libri, il cacio ubriaco che stagiona immerso nel sangiovese. È un pecorino dalla pasta bianchissima e dalla buccia violacea, di notevole intensità aromatica. Iniziai anche ad usare il tartufo delle Crete, ma solo il nero perché il bianco risultò inadatto. Negli anni abbiamo fatto saltuariamente alcuni interessanti recuperi di vecchie tradizioni, il cacio affinato in vecchi ziri da olio, lo stagionato in foglie di noci, nella paglia o nell’argilla e quello con il caglio vegetale di Presura, un carciofo della Val d’Orcia usato fin dal Medioevo che da sentori molto particolari. Li ripresenteremo presto, magari dandogli una continuità. Oggi il Caseificio dei Barbi continua la sua tradizione secolare e si è specializzato nei pecorini che si richiamano ad usi antichi montalcinesi, offerti in piccole forme monodose da duecentocinquanta grammi: ne abbiamo di affinati nel Sangiovese, al tartufo, al pepe nero e alle erbe aromatiche di Montalcino. Viene fatto anche un tipo a media e lunga stagionatura, e tutti sono etichettati con i colori dei nostri vini.
dati a cura di 3BMeteo
29 novembre 2024 08:00