La presenza del bufalo, la caccia al colombo, la pratica dell’apicoltura, le coltivazioni di lino, canapa e zafferano. E ovviamente il vino, con le regole per punire il furto delle uve e il taglio dei filari e per regolare le operazioni di vendemmia, che dovevano cominciare nello stesso giorno, l’8 settembre o il 21 settembre. Sono alcuni dei tanti spunti che emergono dallo Statuto dei danni dati, un insieme di norme firmato a Montalcino nel 1452 per stabilire sanzioni in caso di illeciti (come il furto) o danni determinati dal pascolo abusivo di animali. Un’opera che pone alla luce aspetti centrali e poco conosciuti di Montalcino nel secolo che va dall’acquisizione della cittadinanza senese (1361) alla metà del Quattrocento, ripresa adesso dai lavori di Federica Viola, l’autrice del volume della collana “I Quartieri per la Storia” presentato venerdì scorso a Ocra e intitolato “Montalcino nel Quattrocento. Lo Statuto dei danni dati e degli straordinari (1452): edizione e note storiche” (Effigi, 2018).
“Troviamo tante notizie del periodo tra Duecento e Trecento - spiega Viola, un dottorato in Storia Medioevale all’Università di Sassari alle spalle e adesso insegnante di scuola media a Celleno, in Provincia di Viterbo – mentre fino al 1462, quando Montalcino diventa città, c’è quasi un vuoto. Sembra che in questo secolo la vita si sia appiattita e coincida con quella senese. Invece emerge una forte vitalità politica e una volontà di non voler perdere quei diritti che la cittadinanza aveva garantito. Gli introiti dei danni campestri erano importanti, Montalcino li rivendicherà per tutto il Quattrocento, a differenza delle gabelle, di appannaggio di Siena”.
Viola cita tre episodi del suo lavoro. A un certo punto le autorità montalcinesi erano molto preoccupate perché nessuno portava rispetto ai Priori dei terzieri, che si vergognavano addirittura di ricoprire tale carica. Viene posto allora l’obbligo di levarsi il cappello e salutarli. “Una cosa che non solo fa sorridere – spiega l’autrice – ma che la rende anche attuale, vista la poca credibilità dei politici di oggi”. Poi c’è un altro problema, quello delle donne che lavavano i panni nelle fonti a qualsiasi ora del giorno e della notte. Un fatto grave, perché costringeva gli animali a bere dove bevevano gli uomini, e quindi da sanzionare. Infine, lo Statuto ci racconta di come era diventata abitudine per alcuni uomini e ragazzi andare a giocare a carte, palla o dadi nella loggia di Santa Maria della Croce. “I ragazzi colpivano con la palla il volto della Vergine e bestemmiano, segno che lo Statuto interveniva non solo ad alti livelli alti, ma anche nella vita di tutti i giorni”, conclude Viola, che poi ringrazia i Quartieri per aver finanziato la pubblicazione e Alfio Cortonesi, che l’ha impreziosita con una sua prefazione.
Quello dei “Quartieri per la Storia” è un impegno che dà ulteriore lustro alla loro vita sociale, come sottolinea il moderatore della serata, Gerardo Nicolosi. “Un impegno non solo economico ma anche morale, perché con questo sforzo i Quartieri favoriscono la conoscenza di uno straordinario patrimonio documentario (l’Archivio Storico di Montalcino, ndr) e di conseguenza la conoscenza della storia della città. Non è assolutamente un impegno infruttuoso. La settimana scorsa eravamo qui a sentire le relazioni sulla legislazione suntuaria di Siena e dei territori limitrofi e abbiamo sentito citare il volume di Giuseppe Catalani, prima uscita della collana”.
Relatori della serata gli storici Mario Marrocchi e Alfio Cortonesi, che ha speso bellissime parole per Roberto Caselli: “Mi ricordo ancora il nostro primo incontro su questi argomenti. Roberto si presentò con tre grossi volumi sotto braccio e mi chiesi cosa fossero. Erano le tesi di dottorato di alcuni miei allievi, che lui aveva letto, sistemato, conservato. Ci tengo a ricordarlo in un momento in cui la comunità di Montalcino sta subendo numerose perdite, che non rendono questo 2018 un anno da ricordarsi in positivo”.
Cortonesi poi passa a commentare il lavoro di Federica Viola, che deriva da una tesi di dottorato discussa all’Università di Sassari nel 2007/08 che fa seguito alla tesi di laurea che Viola aveva dedicato sempre a tematiche montalcinesi. “È un libro – spiega Cortonesi - che contribuisce in misura significativa a fare luce su un secolo tra i meno conosciuti, che segue all’acquisizione da parte di Montalcino della cittadinanza senese e che ci porta fino alla compilazione dello Statuto del danno dato. Si scopre una vicenda politica intensa, contrariamente a quanto si può credere. Anni densi di avvenimenti e realizzazioni”.
Nello Statuto si accenna all’olivicoltura (che però in Toscana si sviluppa dopo), alle colture tessili (lino e canapa), alla coltivazione di spezie come lo zafferano. Ma a catturare l’attenzione del legislatore sono i settori cerealicolo e viticolo, con una protezione stringente nella fase vicina alla vendemmia. Si dibatte di furto delle uve, taglio della vigna, mietitura illecita e distruzione delle messi. “A Viterbo nel Duecento era previsto il taglio delle due mani - spiega Cortonesi - mentre a Montalcino si veniva legati per la gola alla catena di ferro del Comune per tre ore, in modo che tutti potessero vedere e trarne le conseguenze”.
La viticoltura rivestiva in questa comunità una grande importanza. Si scopre che esisteva una zona viticola con confini precisi, vicina alle mura del castello ilcinese, dove erano presenti le vigne, gli orti e altre colture intensive. Dentro questa fascia le sanzioni erano ancora più feroci. Lo Statuto parla poi della produzione dei canneti, fondamentale per l’intelaiatura dei filari. Veniva consentito ai proprietari di vigne lo scavo di fosse intorno ai terreni vitati, che potevano frenare l’irruenza degli animali selvatici. A patto però di avvisare il Comune entro otto giorni dall’escavazione, perchè chi si aggirava nelle campagne poteva correre il rischio di cadervi dentro. Infine, la vendemmia doveva cominciare per tutti in un giorno stabilito. O per la Festa della Madonna (8 settembre) o per la Festa della di San Matteo (21 settembre). “Serviva a dare disciplina e controllare la regolarità delle operazioni - commenta Cortonesi - e garantiva la tempestività delle vendemmie, perché c’era l’abitudine della corsa alla raccolta in quanto il vino novello era preferito al vino di conservazione. C’era insomma una gara a scendere per primi sul mercato, quando ancora magari il vino non era pronto”.
Lo Statuto ci dà anche notizia della presenza, se pur marginale, del bufalo (cosa poi neanche tanto sorprendente visto la prossimità con la maremma) e di una pratica dell’apicoltura che lo Statuto evidenzia proibendo il furto di miele e cera. Si disciplina anche la caccia al colombo, in modo da colpire quello selvatico e non quello domestico.
“Montalcino al momento della redazione del danno dato non si può dire ancora città - interviene l’altro relatore della serata, Mario Marrocchi - anche se bisogna capire se questa definizione ha davvero un senso visto che è complicato stabilire quando una realtà urbana diventa una città. E mi viene in mente un modo per ovviare il problema, cioè la definizione di “quasi città”, termine coniato da Giorgio Chittolini”.
Marrocchi va indietro nel tempo, a quando nel 1212 Sant’Antimo cedette il controllo di Montalcino a Siena, cosa che non piacque molto ai montalcinesi. “Nel 1233 Siena definisce Montalcino uno tra i peggiori nemici, e anni dopo il conflitto si fa ancora più vivo. I senesi vorrebbero distruggere Montalcino, che riprende vigore dopo una controffensiva fiorentino-orvietana”. Nelle pagine del danno dato, spiega Marrocchi, si trovano lamentele economiche di fronte alle continue richieste senesi, che “ad un certo punto richiedono 440 fiorini l’anno e gli ilcinesi ne offrono la metà. Non sono anni facili, venivano dopo guerra e pestilenza. Ma da queste vicende Montalcino riuscirà lentamente ad uscirne”. Montalcino si trovava a dover fare i conti con una doppia istituzione: quella senese (il podestà) e quella locale, composta dai Priori dei tre terzieri, Sant’Angelo, Sant’Egidio e San Salvatore. Il consiglio generale era composto da 60 consiglieri, “una partecipazione sorprendente, se si pensa che oggi gli amministratori faticano a trovarne una decina”, aggiunge Marrocchi, che chiude con una citazione davvero indovinata, di Schopenhauer: “in fondo, per studiare l’essere umano, le vicende di un grande impero e di un piccolo villaggio sono le stesse”.