“Ho sempre sospettato che potesse ancora nascondere al suo interno le testimonianze della sua straordinaria singolarità, di essere cioè, per tramite dell’Ospedale senese di Santa Maria della Scala e soprattutto di quella strepitosa torre oggi scomparsa, una “piccola Siena” che dalla città si proiettava verso la campagna, quasi fosse un fermo immagine su quella stagione irripetibile, ma per certi aspetti ancora attuale, del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti”. Così Giacomo Massoni, giovane senese fresco di laurea in Ingegneria Edile-Architettura all’Università di Pisa, spiega alla Montalcinonews il motivo per cui ha scelto come argomento di tesi la Grancia di Montisi, che, come tutte le grance senesi, ha contribuito in maniera determinante, con i suoi poderi e le fitte reti di una efficientissima organizzazione agricola, a plasmare questa porzione di territorio senese giunto quasi intatto sino a noi e tutelato, giustamente oggi, dall’Unesco.
Un monumento sinora noto solo a livello locale, inspiegabilmente dimenticato o comunque mai oggetto di attenzioni da parte della comunità scientifica. Le ricerche di Massoni, le analisi storico-architettoniche, le sue considerazioni compositive e proporzionali hanno invece fatto emergere l’importanza di una tra le più significative architetture civili medievali della Toscana (e non solo), oggi ancora orfana del suo elemento principale, la Torre “coronata”, sorella minore del Mangia di Siena, atterrata dai tedeschi nel giugno del 1944.
Un lavoro durato più di un anno che ha fatto da apripista a due interessanti iniziative promosse da filantropi, dalla Pro Loco e dalla passata amministrazione comunale di San Giovanni d’Asso, entrambe curate da Massoni: la pubblicazione di una prima monografia dedicata (“La Grancia di Montisi”, Betti Editrice) e i recentissimi Atti della Tavola rotonda “La torre coronata di Montisi: una perdita irrecuperabile?”.
“Dai giorni immediatamente successivi all’esplosione e per tutti gli ultimi settant’anni, a cominciare dal nonno del dottor Augusto Pollari Maglietta, attuale proprietario della Grancia (che sarebbe disposto a cedere al Comune il basamento della Torre per procedere con i lavori di ricostruzione, ndr) fino agli indirizzi programmatici delle passate amministrazioni comunali (recepiti anche dall’attuale nuovo Comune di Montalcino), si è sempre dimostrata viva la volontà di risarcire questa ferita identitaria - spiega Massoni - e questo è un passaggio importante, se vogliamo anche a livello “normativo”, considerando che la carta del Restauro di Cracovia (del 2000) apre alla ricostruzione di monumenti distrutti “per cause belliche o naturali, in presenza di eccezionali motivazioni di ordine sociale o culturale, attinenti l’identità di un’intera collettività”. E su questo forte attaccamento identitario, che lega la popolazione al proprio simbolo scomparso, per chi ha avuto modo di conoscere anche solo per poco la realtà montisana, grossi dubbi davvero non sussistono”.
Non resta quindi che far tesoro, in questa fase, delle preziose indicazioni ricevute dal lavoro di tesi, coordinato dall’architetto Pietro Ruschi, dall’ingegnere Anna De Falco (dell’ateneo pisano) e dall’architetto Riccardo Dalla Negra (dell’Università di Ferrara), oltre che dal valore testimoniale e divulgativo del libro dello scorso anno, e dei risultati della “Tavola rotonda” che, su un piano concreto e condiviso ai più alti livelli scientifici e culturali, dimostrano forse più vicina l’eventualità di ricostruire (finalmente) il monumento distrutto.
Sono quindi le basi, come ci dice Massoni, “di un percorso conoscitivo che ha voluto seguire, coinvolgendo la popolazione, le istituzioni e gli enti di controllo, quanto suggerisce appunto la Carta di Cracovia: ovvero la ricerca di “una precisa ed indiscutibile documentazione” finalizzata a proporre - e sto parlando del mio lavoro di tesi - un progetto di risarcimento della lacuna da realizzarsi, come dicono le più attuali teorie del Restauro, con un linguaggio conforme all’architettura contemporanea”.
Massoni ci chiede di non parlare per quanto possibile di “ricostruzione”, terminologia un po’ troppo “sbrigativa” ma semmai di “riedizione reinterpretata della preesistenza, di un nuovo e sincero (ma altrettanto discreto) innesto all’interno della realtà storica del monumento”. Mentre “opera di straordinaria manutenzione” potrà più propriamente essere definito quanto interesserebbe per la restante parte dell’intervento, dal ripristino degli originari collegamenti alla rifunzionalizzazione dei granai e di alcuni ambienti vicini.
Soddisfatto per i risultati ottenuti, Giacomo Massoni è anche fiducioso che la sua fatica possa, chissà, tornare utile anche come passo iniziale per future iniziative: “Spetterà, ovviamente se si presenteranno le giuste condizioni, all’amministrazione comunale con i necessari accordi con il proprietario, avviare nelle forme più opportune (probabilmente un concorso internazionale di progettazione) questa complessa ma affascinante operazione. Se questo mio lavoro potrà mai rivendicare un merito tale sarà, spero, di aver finalmente sgombrato il campo dagli slogan o dalle facili e grossolane definizioni, che in questi casi sempre riaffiorano nei dibattiti tra “pro” e “contro”. Dal “com’era e dov’era” al “falso storico” e via dicendo. Il monumento, per quel che posso suggerire, dovrà essere un autentico prodotto della volontà corale, il frutto maturo di una cultura sociale e artistica che ci è giunta dal passato e che vuole proiettarsi nella contemporaneità, un simbolo di identità civica condiviso e diffuso tra gli abitanti del borgo in piena sintonia con il contesto architettonico, urbano e ambientale che da sempre costituisce il fondale delle loro vite”.
Questa è da più di settant’anni la volontà della popolazione, questa è la loro speranza. “Il grande interesse ricevuto dalla comunità mi ha dato la dimostrazione tangibile di quella che pensavo fosse soltanto una bella frase (di Edoardo Persico, ndr) da leggersi sui testi di formazione. E invece forse e proprio cosi: l’architettura, in fondo, non è altro che “sostanza di cose sperate””.
La seconda guerra mondiale ha mozzato sia la torre della grancia di Montisi che la vita del padre di due bambini, diventato uomo alla sua ombra.
Io per questo sono suo omonimo e alla grancia sono legati i miei primi ricordi in assoluto, come la stanza dei cimeli africani con le lance e le mostruose maschere di legno, l’aspro odor dei tini, i portoni massicci, i lunghi corridoi in cui sparare le matite con il cannoncino di legno a molla regalatomi dal colonnello Mannucci Benincasa, risalente alla sua infanzia e che gelosamente conservo: a tre anni iniziai a trascorrere lunghi periodi tra le sue mura, insieme a mia nonna che allora vi prestava servizio come governante.
Appena imparai a contare mi sembravano un’eternità i quasi trent’anni trascorsi da quando quel possente basamento, con la ferita ancora aperta, era rimasto mozzo e privo del suo scopo di esistere, incompleto come le famiglie con un nonno di cui non si era saputo più nulla, al di qua della cortina di ferro. Ironia della sorte, proprio mentre prestavo servizio di leva, una pattuglia della benemerita bussò a mia madre, già vedova e cardiopatica, chiedendo se quella fosse la famiglia del soldato col mio nome. Mia madre in quel momento pensò ad un incidente e perse altri giorni di vita, non potendo sapere che, grazie alla glasnost, ci venivano comunicati luogo e data del decesso del nonno.
Oggi so che trent’anni passano mentre non te ne accorgi, in tutta Europa sono stati ricostruiti edifici e strutture distrutti dalla guerra o dalle ingiurie del tempo, con una fedeltà spesso inferiore a quella che riusciremmo a mantenere a Montisi: non credo in una nazione che viva solo vestendosi da gladiatore o lasciando lentamente depredare le proprie vestigia, ma credo fermamente che i simboli vadano conservati e quando necessario ripristinati, perché sono la bussola della nostra memoria.