Viticoltura italiana: i progressi nella ricerca scientifica

Da cosa dipende il profumo che percepiamo durante una degustazione? E quali molecole sono responsabili dell’astringenza? Si arriverà mai a stabilire l’autenticità di un vino, partendo dal suo Dna? Inizia il viaggio nel mondo della scienza per capire quali sfide ci attendono. Viaggio con Loredana Sottile e il Gambero Rosso.
In un momento così importante per la viticoltura italiana - settore trainante della nostra economia - la ricerca scientifica sul vino può diventare un fiore all’occhiello del Belpaese? Il Gambero Rosso ha fatto un’indagine per fare il punto e capire quali sono i progetti a cui stanno lavorando Istituti di Ricerca e Università, da Nord a Sud. Ma soprattutto per provare a tracciare il futuro della viticoltura e le sfide che ci attendono nel prossimo futuro. Sostenibilità, trasparenza e resistenza sono i temi chiave. Ma vediamo nel dettaglio.
A Siena va avanti lo studio sul Dna del vino della Serge-genomics (spin-off dell’Università di Siena guidato da Rita Vignani) finanziato per 100 mila dollari, non dall’Italia, ma dal Ttb (The Alcohol and Tobacco Tax and Trade Bureau, l’agenzia doganale che regola l’entrata di alcolici negli States). Una volta completato potrebbe portare a una svolta nella tracciabilità con la possibilità per le aziende di riportare la dicitura “dna traced” in etichetta, attestando così la completa corrispondenza tra il vino in bottiglia e il disciplinare di riferimento. A livello pratico consiste nella creazione di una banca dati dei Dna dei vitigni, per poi passare all’estrazione di quello del vino in questione che, isolato da altre componenti (come batteri e lieviti) può essere confrontato con la banca dati, secondo il principio di coincidenza, per testare la veridicità di ciò che viene riportato in etichetta. “Il progetto con gli Usa” dice Vignani “è giunto alla terza tornata (2014-2016) in cui stiamo ripetendo dei test in cieco su vini blended americani. I risultati preliminari sono stati presentati ad aprile scorso in Napa Valley, in occasione del terzo IWTF- International Wine Technical Forum, organizzato dal Wine Institute e dal TTB”.
Diversa la situazione in Italia dove, ricordiamo, il progetto non ha avuto vita facile, tra le diffidenze degli altri Istituti di ricerca e timori da parte degli stessi produttori. Negli anni, però le cose stanno cambiando. E a maggio 2014 è partito il progetto Winefinger per la tranciabilità molecolare del Brunello di Montalcino, in collaborazione con la Regione Toscana. Costo del programma 150 mila euro, con conclusione prevista il prossimo maggio. Una svolta epocale, visto che proprio a Montalcino l’atteggiamento iniziale nei confronti della ricerca era stata di diffidenza e ostilità, con rare eccezioni. Oggi le aziende coinvolte sono quattro: Caprili, Case Basse, Col d’Orcia e Le Potazzine. E la ricerca dovrebbe portare a una metodica analitica multidisciplinare (molecolare, biochimica e bioinformatica) per la tracciabilità, estesa a tutta la filiera di produzione, oltre a fornire la caratterizzazione genotipica delle viti della varietà Sangiovese (delle aziende esaminate), la caratterizzazione chimico-fisica delle uve della varietà Sangiovese, e il tanto atteso Wine Dna Profiling (WDP). Prima del Brunello, un’altra denominazione italiana che aveva adottato lo studio del Dna era stata la Vernaccia di San Gimignano, ma al momento non c’è una prosecuzione, come ci dice la stessa Vignani “Fino ad oggi a quanto sembra, i tempi non sono stati ritenuti maturi dai produttori di Vernaccia di San Gimignano per giudicare utili gli studi fatti da noi e finanziati dall’Amministrazione provinciale di Siena. È un vero peccato”. Ma la ricerca non si ferma.
La ricerca scientifica applicata al vino negli ultimi anni ha ricevuto sempre maggiore attenzione in Italia. A partire dalle Università, tra cui si ricordano quella di Udine da cui nel 2006 è nato l’Istituto di Genomica Applicata (Iga) con particolare attenzione alla vite e l’università di Siena con il suo spin off Serge-genomics impegnato sul fronte della ricerca del Dna del vino. Da sempre all’avanguardia in ambito vitivincolo anche l’Università di Milano, Dipartimento di Scienze Agrarie, che vanta tra i docenti uno dei massimi esperti del settore, il professor Attilio Scienza. Sempre in ambito universitario è nato per Expo il gruppo di Microbiologia del Vino che comprende attualmente 19 università (Basilicata, Bologna, Firenze, Foggia, Politecnica delle Marche, Milano, Modena, l’Aquila, Napoli “Federico II”, Padova, Palermo, Perugia, Pisa, Reggio Calabria, Sassari, Teramo, Torino, Udine e Verona) e due centri di ricerca: CNR-Lecce e Istituto Vite e Vino Palermo. Si inseriscono, poi, in questo quadro la Fondazione Mach di San Michele all’Adige che, con il suo centro di Ricerca, è da sempre punto di riferimento per tutto il mondo vitivinicolo e Crea, ex Cra, con suo Centro per la viticoltura di Conegliano Veneto.
Dall’Università di Napoli vengono le ultime novità sull’aroma del vino. Ne abbiamo parlato con Luigi Moio, professore di Enologia all’Università Federico II di Napoli e neo-presidente della Commissione di Enologia dell’OIV, l’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino, riferimento scientifico della filiera vitivinicola internazionale: “Il nostro percorso, iniziato venticinque anni fa, è rivolto allo studio dei componenti sensorialmente attivi del vino. Sia i composti olfattivi, sia quelli responsabili di percezioni gustative, in modo da valutare il contributo di ciascuno di essi nell’ambito della totale matrice vinosa. È così che oggi sappiamo che ciò che percepiamo quando beviamo il vino è la conseguenza di interazioni sensoriali multiple che includono sensazioni gustative, trigeminali e olfattive, tra cui queste ultime giocano un ruolo fondamentale. Fino ad oggi, poco più di 2000 molecole volatili di diversa natura chimica sono state identificate in vini ottenuti in tutto il mondo da differenti varietà di uva e con diverse tecniche di vinificazione. Tuttavia, il profumo che percepiamo quando degustiamo un vino è dovuto a un limitatissimo numero di molecole realmente odorose. Noi siamo interessati proprio a queste ultime”. Ma a quale scopo? “Conoscere le molecole realmente odorose e, soprattutto, quelle cosiddette chiave, ossia responsabili dell’identità olfattiva di un vino, può metterci in condizione di valutare in modo analitico l’effetto delle innumerevoli variabili alla base della produzione del vino. Per esempio l’influenza del suolo, dell’esposizione, del sistema di allevamento e potatura della vite, del portinnesto, delle modalità di ammostatura, fermentazione e affinamento del vino e così via. Gli studi sul miglioramento dell’espressione sensoriale identitaria di una determinata varietà di uva, avendo a disposizione i marcatori olfattivi realmente percepibili dall’uomo durante la degustazione, possono essere condotti con maggiore efficacia e precisione”. Cosa che, come ci spiega Moio, è già accaduta per molte varietà d’uva interazionali, quali per esempio chardonnay, sauvignon blanc, riesling, pinot noir, cabernet sauvignon, merlot, shiraz, per citare le principali. Varietà che, essendo presenti in tutto il mondo, hanno visto aumentare in modo esponenziale gli studi ad essi relativi e i team di ricerca. E in Italia a che punto siamo? “Premesso che le nostre straordinarie varietà dobbiamo studiarle essenzialmente qui nel nostro Paese, in questi anni molti interessanti risultati sulle molecole odorose d’impatto olfattivo e su quelle responsabili dell’astringenza sono state ottenute sull’Aglianico. Ma sono aumentate anche le nostre conoscenze sull’aroma di Falanghina, Fiano, Greco e di alcune varietà autoctone minori. Tuttavia, ancora tanto c’è da fare su tutti quelli che io chiamo vitigni italici. È molto importante oggi far emergere pienamente l’identità sensoriale propria dei nostri vini in modo da rendere, in modo più obiettivo, sempre più riconoscibile la loro tipicità varietale e territoriale. Questo è stato ed è, uno dei punti di forza della Francia”. E il professore conclude con un appello al mondo del vino italiano: “Non possiamo vivere sempre all’ombra dell’enologia francese o affidarci alle varietà internazionali senza sfruttare l’enorme patrimonio vitivinicolo che possediamo. La sua diversità e la sua straordinaria complessità devono diventare la nostra forza”.

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