Industria vs artigianato, la sfida della ceramica di Montalcino

C’era una volta un ceramista che ogni mattina entrava nella sua bottega e iniziava a lavorare la sua creta per creare oggetti unici e pregiati. Sapeva già, l’artigiano, che lo attendeva un lavoro lungo e impegnativo, ma la voglia di creare e il bisogno di esprimere la propria arte vinceva su tutto e, pazientemente, si sedeva ed iniziava a lavorare. Prendeva un po’ di creta, ne faceva una palla e la metteva al centro del tornio. Iniziava a lavorare la materia e, dopo un po’, da un pezzo informe, si iniziava ad intravedere un boccale o un bicchiere, un piatto o una ciotola, o un qualsiasi altro oggetto ispirato dalla propria fantasia e creatività. Finito l’oggetto, attendeva che la materia si indurisse per poi poter procedere e aggiungere manici, beccucci o piedini. A quel punto, il ceramista metteva a riposo la sua creazione, fino a quando la creta non si era del tutto ritirata e seccata, dopodiché procedeva alla cottura, tenendo presente che gli oggetti in ceramica avevano bisogno di passare molte ore dentro al forno ad una temperatura di almeno 960 gradi. Il paziente artigiano, poi, aspettava una notte che il forno si raffreddasse e tornasse ad una temperatura di 50 gradi e, a quel punto poteva aprire il forno, tirar fuori la propria creazione e iniziare la lavorazione finale: smaltare e decorare l’oggetto per poterlo poi esporre e vedere. Questa fase della lavorazione prevedeva l’immersione dell’oggetto nello smalto. L’operazione della smaltatura era un lavoro semplice e veloce che però richiedeva molta esperienza per non rischiare di pregiudicare il risultato finale; il ceramista aveva impiegato molto tempo per imparare a farlo bene. A questo punto l’oggetto era pronto per essere decorato: l’artigiano lo posizionava sul “torniello” e iniziava pazientemente a dipingere con decori liberi, filetti campiture o stemmi, tutto rigorosamente a mano. Terminata l’operazione di pittura, l’artigiano infornava nuovamente la creazione a 940 gradi e attendeva col fiato sospeso tutta una notte, sperando che l’oggetto non si rovinasse durante la cottura finale. Finalmente era giunto il felice giorno in cui il ceramista poteva esporre, orgoglioso, la sua “creatura” e sperare che qualcuno se ne innamorasse e l’acquistasse. Il lavoro duro veniva finalmente ricompensato.
Ma per il ceramista, e per tutti gli artigiani come lui, stavano per giungere giorni tristi e di sofferenza. Una nube nera stava per abbattersi su di loro e spazzare via le certezze del loro futuro: la concorrenza sleale. Arrivarono le aziende che facevano lavorare i propri operai al nero per pochi soldi e in situazioni pericolose e nocive per la salute; altre che utilizzavano decalcomanie dichiarando, invece, che le decorazioni venivano eseguite a mano; fu l’avvento degli imprenditori che spostarono le proprie attività nei paesi del Terzo Mondo per sfruttare la mano d’opera a bassissimo costo di donne e bambini costretti a lavorare in situazioni spaventose. Da quel giorno, tutti gli artigiani iniziarono ad annaspare per rimanere a galla, ma molti di loro non ce la fecero e molte maestranze scomparvero per sempre”. Questa non è una favola, è la vera storia di un artigiano di Montalcino, che, in realtà, non è neanche un uomo, ma una donna, Paola Gorelli, una delle ultime ceramiste della Val d’Orcia. Paola, a Montalcinonews, racconta così la sua storia: “prima avevo due ragazze, poi una soltanto, dopodiché una ragazza part time e ora sono sola. Sarei un “maestro figulino”, l’arte più antica del mondo, uno che ha imparato il lavoro da altri artigiani e lo ha insegnato ad altri ma oggi conta solo vendere oggetti a poco prezzo. Si è perso il valore del lavoro, si è perso il senso del ben fatto, del fatto con amore. Gli artigiani erano il fulcro della nostra società, apprezzati in tutto il mondo; da una cosa informe creavano oggetti utili e belli. Purtroppo gli artigiani in Italia sono divenuti “pezzi da museo”, una razza in estinzione come i lupi degli Abruzzi e l’orso marsicano. Ma io non demordo”.
La storia di Paola, purtroppo,  non è l’unica a Montalcino: ci sono molti esempi di artigiani che non sono riusciti a crearsi una “bottega” di allievi che seguissero le proprie orme e che tramandassero le arti antiche che custodivano. C’erano “Bebbe Sordo” lo stagnino, “Vetta” il calzolaio, il “Sartino” e “Alvio” i falegname. Mestieri e mestieranti che si sono spenti senza che nessuno potesse proseguire la loro arte: a Montalcino non c’è più chi sbalza il rame, né chi risuola le scarpe - che ormai si buttano e si ricomprano nuove, perché costa meno - il sarto non serve più perché i vestiti si comprano direttamente ai grandi spacci, e per i mobili? Chi ormai ha più bisogno del falegname, esistono catene che, a prezzi stracciati, ti vendono mobili che devi montare da solo. La comodità e il progresso sono un grande sviluppo per la società moderna ma, forse, a scapito di arti, maestrie e di una certa cultura che tramandava di generazione in generazione non solo maestrie e “saper fare” ma anche lavoro, offrendo occupazione, remunerazione e un futuro sicuro a quanti riuscivano a distinguersi sul mercato per la qualità delle proprie produzioni. Un mondo che forse non c’è più o al quale, probabilmente, stiamo cercando di tornare.

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