Sandro Chia, fra gli artisti italiani più apprezzati e noti all’estero, personaggio molto legato al nostro territorio e che per tanto tempo vive anche nel suo splendido Castello di Romitorio, è al centro di una mostra che lo omaggia nell’attuale ondata di ritorno alla figurazione: dal 3 gennaio al 15 aprile, la Galleria d’Arte Maggiore di Bologna presenta “Andare oltre”, un accurato iter di opere storiche e recenti del maestro toscano, che attualmente vive e lavora tra Miami, Roma e Montalcino, dove si “diletta” anche nella produzione di vini pregiati nella sua azienda di Castello Romitorio (tra tutti un “grande” Brunello).
Selezionati da Franco e Roberta Calarota, i lavori rivelano la passione di Chia nei confronti dell’intreccio di citazioni, di memorie, di rimandi che riducono ogni distinzione tra cultura alta e popolare. Da qui l’artista - che ha viaggiato in tutto il mondo, dall’India fino a gran parte dell’Europa, prima di trasferirsi a New York per oltre due decenni - origina un vero e proprio universo iconografico che si nutre, senza alcuna preclusione, dell’antico e del moderno, ispirandosi con leggerezza ed ironia a un vasto territorio culturale.
Nel catalogo della recente mostra di Chia al Museo internazionale delle ceramiche di Faenza (Ravenna), dove è esperto delle collezioni moderne e contemporanee, Franco Bertoni definisce le opere del maestro fiorentino “un urto visivo e narrativo”. E proprio alcuni dei lavori in ceramica, realizzati per l’occasione (cornici, mappamondi, libri), chiudono la personale di Bologna, consentendo un’ulteriore riflessione su come l’attraversamento delle avanguardie segni un’apertura alla sperimentazione che impiega ogni forma linguistica, se consona, alla necessità espressiva.
Info: www.maggioregam.com
Focus - La storia americana dell’artista Sandro Chia
Quella del fiorentino Sandro Chia è sicuramente una storia americana. Quando arrivò a New York nel 1979 aveva con sé i quadri arrotolati perché non possedeva neppure i soldi per spedirli e assicurarli. Non lo conosceva nessuno e la prima reazione dei galleristi di fronte alle sue opere fu di sconcerto. Ma pochi mesi dopo un ammirato Andy Warhol suggeriva l’acquisto dei suoi quadri persino a Mick Jagger dei Rolling Stones, e Chia era già in grado di acquistare un palazzo di dieci piani a Chelsea, allora degradato quartiere di Manhattan ma divenuto poi tra i più ambiti da artisti ed upper-class. Per Chia, 60 anni, sposato con Marella Caracciolo, non fu solo un grande affare. Quindici anni dopo Chia acquistò per 700 milioni un castello che era quasi un rudere, con ventidue ettari di terreno attorno. Il castello si chiama “Il Romitorio” ed è situato a Montalcino e tutto attorno ci sono viti, con cui si producono bottiglie di Brunello e supertuscan. L’insolita storia, insomma, di un artista Re Mida che vale davvero la pena di ascoltare dall’inizio.
Chia, ci racconta da dove era partito e che aveva fatto prima di trovare l’America?
“Avevo vissuto un’epoca meravigliosa e irripetibile, quella degli anni tra il sessanta e l’ottanta all’insegna della più totale spensieratezza. Pur conservando le idee chiare sulla mia aspirazione artistica. Me ne andai di casa per questo. I miei mi avevano iscritto all’istituto tecnico per geometri, ma poi scoprirono che non ci andavo e di nascosto frequentavo l’istituto d’arte. Per mantenermi lavoravo in una bottega artigiana a San Frediano, dove si riadattavano pezzi artistici e anche logici. Fu la mia prima esperienza, assieme all’Istituto d’arte, dove comunque avevo eccezionali insegnanti. Basti pensare che a letteratura c’era in cattedra Mario Luzi. Ma pur regalando ottime basi culturali l’Istituto insegnava un mestire artigianale e non artistico. Io frequentavo con pochi altri quella che era considerata la sezione Kamikaze, cioè senza futuro; la pittura. E poi andai all’Accademia di Belle Arti, in pieno ’68, quando si facevano più assemblee che lezioni. Ma era una bella ginnastica per l’ego. Potevi parlare ad altre persone, dalle quali venivi stimato e seguito o odiato, e ti sentivi comunque vivo, in mezzo a una pluralità di pensiero”.
Poi approdò a Roma. Trovò anche lì un lavoro?
“Neanche per sogno. Quello della bottega Artigianale fu l’unico lavoro fisso della mia vita. La Roma di quegli anni era molto particolare. Si stava con gli amici, senza mai chiedersi chi avrebbe avuto i soldi per pagare la pizza, i supplì. Qualcuno ci avrebbe pensato. E si viveva un po’ randagi. C’era molta promiscuità sociale e non una rigida divisione come adesso. Era naturale avere un gruppo di amici composto da rampolli e da ragazzi provenienti da famiglie meno abbienti”.
Ma qualche soldo ci voleva comunque…
“Fui fortunato nella sfortuna. Ebbi un incidente con la moto e l’assicurazione mi rimborsò un milione di lire, un patrimonio enorme per me. Un altro milione lo ebbi vincendo una borsa di studio dal Comune di Firenze. E poi cominciai a fare qualche mostra, anche se vendevo pochissimo e a cifre irrisorie: ventimila lire a quadro. In ogni caso l’affitto per una stanza a Trastevere costava diecimila lire al mese e al ristorante si mangiava con mille lire. Qualche volta riuscivo comunque a viaggiare. Cercai anche di vivere a Parigi, ma i primi denari veri iniziai a guadagnarli attorno ai trent’anni con le mostre in Germania. Là ero ritenuto uno dei giovani artisti più promettenti. Si cominciava a parlare di questo nuovo movimento artistico. Quello formato da me, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino e dal critico Achille Bonito Oliva. In Germania eravamo i neoselvaggi. Qui in Italia si parlava di Transavanguardia”.
Ma poi decise di andare tutto solo a New York. E fu il successo improvviso, determinato da che cosa?
“Da una quadratura astrale misteriosissima. Un po’ c’era stata una preparazione del terreno in Europa e un po’ era arrivata proprio allora una nuova generazione artistica in America. Inoltre si era affacciata una nuova classe di collezionisti, i giovani yuppies, che facevano un mare di soldi con la borsa finanziaria. Stavano cambiando insieme, sia i gusti che l’economia. Qualcosa di simile sembra impensabile in Italia, seppure in quegli anni ad esempio esplosero i “graffitisti” tra i quali il più famoso e il più geniale fu Jean Michel Basquiat, il quale ebbe successo soltanto poco prima di morire tragicamente. Ricordo che lo presentai io ad una gallerista che si lamentava di lui non soltanto perché non vendeva le sue opere, ma perché le insidiava la figlia. Ma io ne stimavo il talento artistico. Una volta che dimenticò dei disegni che aveva fatto lì per lì sulla mia macchina, io lo inseguii per giorni e giorni, prima di poterglieli restituire. E lui mi ringraziò: “Sei l’unico che mi tratti bene, mi hanno detto che conservavi i miei disegni addirittura in cassaforte”.
Ma come finì per acquistare quel palazzo di dieci piani a Chelsea?
“Mi ritrovai un po’ di soldi e decisi di investirli subito. Già in quel primo periodo a New York avevo un visto turistico, poi prorogato di sei mesi, e non mi era permesso aprire un conto corrente in banca. Quando Andy Warhol disse a Mick Jagger di acquistare i miei quadri, gli suggerì di portare i contanti, perché io non potevo accettare assegni. Non me li avrebbero cambiati. In quanto al quartiere di Chelsea, a me piaceva perché era vissuta lì tutta una generazione di artisti, da Dylan Thomas a Bob Dylan, ai beatnik, ma allora era ritenuta una zona impraticabile e io pagai il palazzo solo 250 mila dollari, raccolti vendendo i miei quadri fra i 3 e i cinquemila dollari ognuno. Poi quando Chelsea divenne il quartiere delle migliori gallerie d’arte e degli appartamenti residenziali io vendetti il palazzo”.
Acquistò con quei soldi il Romitorio?
“No, lo vendetti più tardi. Nell’85 si verificò un’altra casualità: una multinazionale aveva acquistato un grande edificio a Manhattan in cui stabilire la sua sede. Con piglio rinascimentale decise che nell’entrata nell’enorme lobby voleva delle opere d’arte. Richiese la partecipazione di vari pittori, tra i quali anche Roy Lichtenstein. A me fu chiesto di decorare un ambiente di dieci metri e venni pagato 700 milioni, proprio quelli che investii nel Romitorio a Montalcino. Me lo offrirono allora”.
Di nuovo al momento giusto. Lei rovescia l’equazione dell’artista tutto genio e sregolatezza
“No, in quanto a sregolatezza non mi sono fatto mancare niente. Ma sul paino degli affari è accaduto tutto per caso. Semplice fortuna. Come uno che va a giocare alla roulette e vince. E’ chiaro che se si entra al casinò e non si punta, l’economia personale non può cambiare. La mia oculatezza o la scienza è stata soltanto quella di recarmi nel luogo dove si giocava tutto per tutto, sempre e in continuazione. Ammiro profondamente quegli artisti che sono rimasti legati alle loro radici, alla fonte da cui attingere poeticamente. Io mi sono brutalizzato costantemente, mi sono sempre messo a repentaglio, alleggerendo ogni volta il mio bagaglio. Ho cercato semmai di conservare la mia identità”.
Quale considera la dote principale di un artista?
“Gli americani la chiamano restless, cioè l’inquietudine. Ma conta anche la fortuna, persino di nascere e vivere in un posto, in un ambiente. Di trovarsi lì al momento giusto. E questo vale per tutti. Anche per Michelangelo”.
Focus - Sandro Chia: Transavanguardia e Brunello
Un’opera d’arte chiamata etichetta: è un’azienda vinicola ma anche fucina di un’artista di fama mondiale. Nel suo Castello Romitorio, vecchia tenuta in Montalcino che ha restaurato e portato a nuovo splendore, Sandro Chia, tra i padri della Transavanguardia, ha messo il suo tocco di artista anche sul vino. A partire dal castello, che era quasi un rudere quando l’ha comprato nel 1994, di ritorno da New York. Ora, da lui ripensato e ristrutturato, non ha prezzo sul mercato, come i 22 ettari di terreno attorno in cui si producono bottiglie di Brunello e Supertuscan: 150.000 bottiglie, che per il 70% prendono la via dell’estero. Vini importanti, raffinati anche a vedersi: perché le etichette delle bottiglie sono d’autore. Veri e propri quadri dal tocco unico, firmati appunto Chia. Firmate Mimmo Paladino, invece, altro esponente di punta della Transavanguardia, sono le etichette del Morellino di Scansano, prodotte nella tenuta comprata da Chia qualche anno fa in Maremma, la Ghiaccioforte.
Riconoscimenti mondiali per il Brunello (Sangiovese), ma anche per l’“internazionale” Romito del Romitorio, blend di Sangiovese (80%) e Cabernet Sauvignon (20%).
Info: www.castelloromitorio.com